Meno 58mila studenti in dieci anni: la metafora dell’ateneo di Milano che «sparisce» è quella che più rende la perdita di attrattiva dell’università italiana nell’ultima decade. Ma c’è molto altro, nella Dichiarazione del Consiglio universitario nazionale (Cun). Ilsussidiario.net ne ha parlato con Carla Barbati, membro del Cun e docente di diritto amministrativo nell’Università Iulm di Milano. Dalla assoluta inadeguatezza della macchina di governo alle leggi inadeguate, prima fra tutte la 240, dalla valutazione al meccanismo delle abilitazioni, che «rischia di creare una questione sociale» fino agli strumenti culturali degli studenti, definiti «fragili» (e che per questo chiamano in causa la scuola superiore), si capisce perché di università, in questa campagna eletorale, nessuno stia parlando.



I dati più eclatanti nella Dichiarazione del Cun riguardano gli studenti: -17% in 10 anni, -4% negli ultimi 3 anni. La laurea interessa di meno?
Questo è il dato globale, tratto dalle informazioni dei siti istituzionali, riferito alla prima immissione all’università, non agli studenti iscritti al primo anno, magari provenienti da altri corsi. Vi sono però altri dati che si traggono da analisi scorporate per classi di laurea e che sono nella disponibilità del Cun. Da lì si evince che vi sono settori formativi che continuano a esprimere una capacità attrattiva e altri che segnalano abbandoni di massa.



Quali sono?
I primi corrispondono alle lauree in materie scientifiche. I secondi, in prevalenza, a quelle umanistiche, meglio ad alcune loro espressioni percepite come meno interessanti per il mercato. Dati che raccontano un diverso valore riconosciuto alla laurea, non più testimonianza di un percorso formativo culturale personale, ma che raccontano anche l’incapacità del contesto di valorizzare i saperi che potrebbero connotare la presenza del nostro sistema universitario sulla scena sovranazionale.

Secondo lei la crisi economica sta in qualche modo facendo sentire i suoi effetti?
La crisi economica può sicuramente essere fra le ragioni, ma non è la ragione principale. Vedo semmai quanto richiamavo prima: l’incapacità del contesto, del «sistema Paese»,  comprensivo sia del settore pubblico sia del settore privato, a valorizzare la formazione di livello universitario. Nella fascia 25-34 anni, i laureati italiani sono il 21% contro la media Ocse del 38%, un dato che ci colloca in fondo alla classifica, seguiti solo da Turchia, Brasile e Cina.



Non c’è di mezzo una bolla formativa, ossia pochi laureati in assoluto, ma troppi per il nostro mercato?
Se questi laureati sono troppi per il mercato italiano, dovremmo interrogarci seriamente sulla natura del nostro mercato del lavoro e sul destino del nostro Paese. Crediamo davvero che la soluzione sia ridurre ulteriormente la qualificazione della nostra forza lavoro? Lo studio universitario però dovrebbe essere valorizzato anche per il significato culturale che possiede, perché rende capaci di esprimere quel sapere critico che consente di vivere una cittadinanza piena e consapevole oltre ad ottenere un’occupazione più qualificata.

Non da oggi abbiamo meno laureati degli altri paesi europei. L’obiettivo può essere ancora quello di aumentare il numero dei laureati? Le lauree triennali non dovevano già averlo fatto?

Le lauree triennali avevano questo obiettivo. In realtà, anche qui, ci si è misurati con una resistenza, che è stata delle stesse pubbliche amministrazioni, a riconoscere il titolo triennale per l’accesso a molti ruoli, anche non apicali, tanto da dover essere sollecitate, talvolta vanamente, con apposite circolari, direttive. L’obiettivo di aumentare il numero dei laureati, tenendo conto che ciò significa accrescimento del livello di conoscenza e di conoscenze, non può che essere condiviso. Ma, appunto, per raggiungerlo occorre fornire ai giovani una «buona ragione» per laurearsi, stimolandoli a riconoscere il valore in sé del sapere, e questo non può che essere compito anche della scuola secondaria; e poi sollecitando il settore pubblico e privato a riconoscere  il valore dell’alta formazione. È anche utopistico pensare di aumentare il numero di laureati riducendo la spesa per l’università che è già bassa: secondo l’Ocse, come spesa/Pil nel 2009 l’Italia era 32esima su 37 nazioni.

L’università italiana è mediamente più a buon mercato rispetto a quella dei paesi più avanzati. È un bene o un male?
Non è così a buon mercato: in Europa siamo terzi per tasse universitarie. In ogni caso, favorire l’accesso all’università è un bene. Certo, non deve generare l’idea che poiché non costa tantissimo ci si può iscrivere con «leggerezza», magari permanendo anni, nella condizione di fuori corso. Ma non vorrei giungere alla conclusione che solo le rette alte riescano a rendere consapevoli gli studenti del valore della formazione universitaria. Mi parrebbe una semplificazione eccessiva. Perché l’Università sia «presa sul serio» non è certo sufficiente farla pagare molto. Ancora una volta, è necessario che il sistema Paese le riconosca un valore. Da lì si parte e certo occorre giunga un messaggio anche molto chiaro: la laurea come «pezzo di carta» non serve; serve solo se documenta un percorso formativo elevato, corrispondente a un sapere acquisito. Perciò, occorre prenderla sul serio e non viverla come adempimento burocratico per ottenere un certificato, quali ne siano i costi.

Cosa pensa dell’aumento delle rette per i fuoricorso voluto dal ministro Profumo?
In parte, ho già detto. Penso che ogni misura destinata ad agire solo sui costi sia una misura debole che non interviene sulle cause delle scarse motivazioni a prendere sul serio l’università, ma cerca di contenerne solo taluni effetti. È altrettanto certo, però, che intervenire sulle cause di quella che diventa spesso una storia di disaffezione nei confronti degli studi universitari, non può essere compito di un solo ministero o di un solo ministro. Occorre che la questione del valore della laurea e della formazione universitaria sia attratta e risolta nell’ambito delle politiche pubbliche generali di un Paese.

Secondo lei in Italia il sistema del diritto allo studio è adeguato?

Qui più che la mia opinione, dicono i numeri, ancora una volta. E questi numeri raccontano di un diritto che conosce garanzie minori di quanto avvenga in molti altri Paesi. Certo, su questo esistono competenze forti delle Regioni che devono essere sostenute in questi loro interventi. Ma è anche vero che gli ultimi provvedimenti paiono riempire il diritto allo studio di contenuti che possono apparire sin eccessivi, non per quantità ma per tipologie di azioni. L’importante è e sarebbe garantire, appunto, il livello essenziale ma garantirlo «sul serio».

Cosa significa?
Meno indicazioni-manifesto e più effettività, per adempiere il dettato costituzionale che eleva a diritto la possibilità dei «capaci e meritevoli», anche se privi di mezzi, di «raggiungere i gradi più elevati degli studi». Ripartiamo dalla Costituzione, in sostanza.

Come commenta l’andamento del Ffo così come presentato dal Cun?
La riduzione delle risorse destinate al sistema universitario altro non è che l’espressione contabile di quel limitato interesse per la formazione universitaria che si manifesta anche negli altri dati richiamati. Sino a che la questione universitaria continuerà a essere percepita come questione di settore, voce di spesa da  equilibrare con altre, esse sì di settore, non si potrà che essere esposti alla diversa capacità dei vari ministri di trattare con chi detiene «i cordoni della borsa», per spuntare qualche cosa in più e quel qualche cosa in più rischia di essere sempre con il segno meno. È quella mancata attrazione dell’Alta formazione nell’ambito delle politiche pubbliche generali di cui dicevo, verso la quale orienta l’Unione europea e molti Paesi si stanno muovendo. Il sistema universitario  non deve essere più percepito come assorbitore di risorse pubbliche, che non ci sono o  sono insufficienti, ma come risorsa sulla quale investire per la sua capacità di generare risorse.

Tra le criticità del sistema, il Cun accusa «riforme di vasta portata la cui attuazione si è risolta in un’iper-regolazione di difficile leggibilità». Di che cosa stiamo parlando?
Stiamo parlando di un ordinamento in deroga ai principi della semplificazione. L’attuazione della legge 240 si è risolta in una congerie di atti normativi, quasi soffocante, scritti in un linguaggio che non sembra informarsi ai canoni della buona normazione e che riporta a un passato che dagli anni 90 si voleva diverso. Si è dimenticata l’importanza della «qualità della regolazione» per lo sviluppo di qualsiasi sistema, come richiedono le sedi internazionali a partire dall’Ocse…

Cosa non funziona, in pratica?
Molte di queste prescrizioni introducono soluzioni del tutto nuove, create da pochi a tavolino, nel chiuso di qualche stanza ministeriale, senza precedenti applicativi, in Italia o altrove, capaci di documentarne il rendimento. L’esempio principe è offerto dai nuovi meccanismi di valutazione: sperimentazioni allo stato puro, ad applicazione e con effetti immediati, ma sperimentare sulla ricerca e sul sapere può essere molto pericoloso. Può condurre a esiti nefasti, per rimediare ai quali possono occorrere anni.

Alcune cose da fare senza indugio da parte del prossimo governo?

Sapere che ogni riforma è un work in progress: deve essere monitorata, aperta ai correttivi necessari quando le prime applicazioni ne evidenzino le debolezze. Talune già sono emerse: riguardano il modello organizzativo e procedurale delle valutazioni, da semplificare, ridefinire nel peso, nelle finalità e nella proporzionalità agli scopi; il meccanismo delle abilitazioni che rischia di creare una questione sociale, quella dei troppi abilitati in un sistema che non è pronto a pensarsi in termini di abilitati, non reclutabili; l’autonomia universitaria, da ridefinire negli spazi qualificanti.

E a livello macro?
Ripensare l’amministrazione statale di settore, ripartendo dal ministero, dalla sua organizzazione e dalle risorse umane, intese come competenze, che è andato smarrendo. Ripensare l’accorpamento dell’Istruzione con l’Università: troppe sono le eterogeneità e troppo il peso, quasi sbilanciante, dell’Istruzione. Solo un centro forte può garantire autonomie forti come devono essere quelle universitarie. Il centro debole non aiuta le altre autonomie, non possedendo la soggettività piena che consente di entrare in relazione con altri, ma riesce solo a esprimere una concezione difensiva, quasi aggressiva, del proprio ruolo. Ripensare  i processi tramite i quali si formano le decisioni, attraendo in essi il sistema universitario tramite le sedi di rappresentanza istituzionale disponibili e che devono essere rivitalizzate.

Ragioniamo normalmente sull’università e più in generale sul nostro sistema formativo facendo sempre meno ricorso a fattori culturali non misurabili. Ci chiediamo se l’università è all’altezza dei giovani. Ma i giovani sono all’altezza dell’università?
Rivolgo un pensiero a un tema centrale, lasciato su uno sfondo talvolta dimenticato: la scuola secondaria con le sue carenze di sistema. Gli strumenti culturali degli studenti sono molto fragili, tanto che occorre adattare il livello di analisi alle conoscenze mancanti. Le lezioni di anni fa non sarebbero possibili. Spesso manca sin la conoscenza dell’italiano: nelle tesi si correggono sintassi e ortografia. Anche i docenti, oberati da un numero di ore lezione che saranno indice quantitativo di produttività, ma non altrettanto compatibili con la qualità, possono non rendere quelle lezioni alte, possibili quando la docenza universitaria era ciò che dovrebbe essere, ossia comunicazione di chi dedica il tempo alla ricerca e non è chiamato ad assolvere un’infinità di oneri burocratici, producendo ore di didattica spesso in condizioni inaccettabili. Il sapere è altro. Quando ci si renderà conto di questo, liberi da approcci demagogici al «lavoro» dei docenti, si sarà compiuto un grande passo avanti.