Il tema è così importante che nessuno ne parla. Che siano tutti d’accordo? È il «primo fattore di sviluppo del paese», dice il mantra, ma, nella realtà, la scuola è la grande assente dalla competizione elettorale. Non nei proclami, naturalmente, ma nei dettagli. Per questo ilsussidiario.net ha rivolto ai responsabili scuola delle principali formazioni impegnate in campagna elettorale alcune domande sui temi più scottanti della politica scolastica. Le interviste sono state realizzate sulla base dei medesimi quesiti, uguali per tutti. Intervengono oggi Letizia Bosco e Ilaria Persi, del dipartimento scuola di Rivoluzione civile – Ingroia.
Qual è l’idea-chiave del vostro programma?
Prima di parlare di quali sarebbero i nostri interventi sulla scuola, ci sembra doveroso puntualizzare e chiarire la nostra analisi riguardo le politiche scolastiche degli ultimi decenni; riteniamo infatti che i provvedimenti in materia scolastica realizzati dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni in Italia siano stati dettati da una logica di mero risparmio economico a cui è stato subordinato qualsiasi altro criterio di natura didattico-pedagogica. Si è raggiunto l’apice con le riforme degli ultimi governi, in particolare quello Berlusconi (di cui il successivo è stato solo un consequenziale sviluppo) che ha sottratto con la legge 133/2008 più di 8 miliardi alla scuola. Le riforme Gelmini, con il solo scopo di diminuire l’organico delle nostre scuole, hanno determinato un generalizzato impoverimento dell’offerta formativa, attraverso la drastica riduzione del tempo scuola.
Che cosa vorreste fare?
Noi vorremmo invece voltare pagina e iniziare a investire nella scuola come istituzione dello Stato, fondamentale per rendere attuativo il dettato dell’art. 3 della nostra Costituzione e cioè la rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
Nello specifico?
Le nostre politiche nell’immediato sarebbero le seguenti: diminuire il numero degli alunni nelle classi, ripristinare le compresenze alla scuola primaria, aumentare il tempo scuola e ridefinire il monte ore delle discipline in base alle reali esigenze della didattica, con particolare attenzione alle materie di base e alle attività laboratoriali che, mutilate dalla riforma Gelmini delle superiori, vedono fortemente ridotta la loro valenza formativa; consentire la riconduzione a 18 ore di insegnamento, nelle scuole superiori, solo lì dove ciò non comprometta la formazione di cattedre e consigli di classe omogenei, evitare quindi la formazione delle cosiddette “cattedre spezzatino” e consentire alle singole istituzioni scolastiche di avere personale a disposizione per coprire le supplenze improvvise degli insegnanti, senza ulteriori aggravi in termini di ore lavorative per i docenti che, come dimostrano i dati relativi agli altri paesi europei, hanno un orario di cattedra già sufficientemente impegnativo.
Veniamo ai docenti. Prima del governo Monti è stato avviato dal governo Berlusconi il Tfa basato sulla separazione tra abilitazione professionale e reclutamento del personale. Il Tfa transitorio si sta svolgendo, pur in mezzo a difficoltà. Il Tfa ordinario dovrebbe partire subito dopo, partiranno i Tfa speciali. Andrete avanti sulla strada intrapresa?
No. Esprimiamo infatti la nostra contrarietà alla separazione tra la formazione degli insegnanti e il loro reclutamento. Siamo fermamente convinti che per rispondere all’esigenza di affidare le nostre scuole a personale qualificato e al contempo evitare la formazione di nuovo precariato scolastico per il futuro si debba prevedere un percorso formativo sicuramente selettivo e strettamente connesso con il reclutamento. È chiaro che nell’immediato devono comunque essere affrontate e risolte le questioni riguardanti l’attuale precariato scolastico, il cui mancato assorbimento è stato dovuto esclusivamente ai tagli operati negli ultimi anni e quindi riteniamo che sia necessario prevedere una fase transitoria per l’assorbimento dei precari prima di procedere all’attivazione di nuove procedure di reclutamento.
Il ministro Profumo ha bandito un concorso. Al tempo stesso la legislatura si chiude senza che un nuovo regolamento per il reclutamento dei docenti sia in vigore. Qual è il vostro progetto in merito?
Innanzitutto ci teniamo a precisare che siamo consapevoli che l’indizione dell’attuale concorso, al di là delle affermazioni demagogiche del ministro Profumo, non sia nata dalla necessità di innalzare la qualità del nostro sistema di istruzione né dall’esigenza di reclutare personale qualificato: le attuali graduatorie ad esaurimento infatti sono piene di personale già specializzato e che ha tutte le carte in regola per ottenere la stabilizzazione lavorativa in base al meccanismo di scorrimento, negata ormai da troppi anni. Questo concorso sta sortendo l’unico effetto di creare spaccature all’interno di una categoria di lavoratori già ampiamente vessata e di dar vita ad ulteriori contenziosi nei confronti della pubblica amministrazione. La mole di ricorsi presentati negli ultimi mesi contro il bando del concorso rappresenta una prova sufficientemente chiara dell’inopportunità e dell’illegittimità di tale provvedimento.
E per quanto riguarda formazione e reclutamento? Come deve avvenire l’assunzione degli insegnanti: a) per impedire la formazione di nuovo precariato? b) per selezionare personale che sia effettivamente capace di insegnare?
Per quanto attiene alle nostre proposte in merito alla formazione e al reclutamento del personale docente, precisiamo che è già presente in Parlamento una proposta di legge, l’A.C. 5075, presentata dall’IdV nel 2012, che, a nostro avviso, costituisce un punto di partenza per avviare una discussione con chi vive e opera all’interno delle nostre scuole anche sul tema del reclutamento. Tale proposta prevede, proprio nell’ottica delle affermazioni precedentemente esposte, la connessione tra formazione e reclutamento dei docenti: si prevedono infatti percorsi di specializzazione a numero chiuso e programmato in base alle esigenze del nostro sistema di istruzione che formino i nuovi docenti sia sul piano più strettamente didattico-disciplinare che su quello socio-psico-pedagogico; è prevista inoltre un’attività di tirocinio da effettuarsi presso le nostre scuole con la supervisione di insegnanti tutor; il personale in formazione sarà poi utilizzato, con contratto di formazione, per coprire gli incarichi di supplenza oggi attribuiti con contratto a tempo determinato ai precari e successivamente, previo superamento delle prove di abilitazione, tale contratto verrà trasformato in contratto a tempo indeterminato.
Si è parlato in tempi recenti di assunzione diretta dei docenti da parte di scuole o reti di scuole, sulla base dei posti disponibili e dell’offerta formativa di ciascuna scuola. Cosa ne pensa Rivoluzione civile?
La risposta del mondo della scuola nei confronti della legge che l’On. Aprea aveva presentato nel 2008 e che prevedeva, tra le altre cose, anche l’istituzione di un concorso di istituto (altro modo per indicare la gestione territoriale del reclutamento), rappresenta per Rivoluzione civile un indicatore importante rispetto al modo di affrontare questa questione. Condividiamo infatti la preoccupazione espressa da quanti temono che la chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici possa dar vita a deprecabili meccanismi clientelari cui peraltro, allo stato attuale delle cose, il nostro Paese non può ritenersi estraneo. Del resto ci sembra necessario dotare le nostre scuole di personale aggiuntivo per far fronte alle esigenze di ogni singola istituzione scolastica, ma siamo dell’avviso che questo obiettivo non sia necessariamente legato al reclutamento attraverso la chiamata diretta; anzi ci appare una forzatura la pretesa di svincolare la gestione degli organici dagli uffici scolastici regionali, ponendo fine alla prassi attualmente adottata.
La professione docente è valutabile? Perché e chi deve presiedere a questo compito? Alla valutazione deve o no corrispondere una diversa retribuzione? Ritiene che scatti e anzianità siano la sola strada possibile?
Innanzitutto ci teniamo a sottolineare che gli scatti di anzianità rappresentano un oggettivo criterio per il riconoscimento della professionalità che i docenti, indubbiamente, acquisiscono e affinano attraverso l’esperienza e pertanto andrebbero immediatamente ripristinati e mai messi in discussione. Inoltre pensiamo che la collegialità, e cioè la collaborazione tra insegnanti, sia un principio indispensabile perché venga ottimizzato il rapporto insegnamento-apprendimento e pertanto si deve quanto più possibile evitare l’introduzione nelle nostre scuole di modalità di valutazione del lavoro dei docenti applicando meccanismi punitivo-premiali mutuati dal mondo dell’azienda che rischiamo di innescare logiche di antagonismo tra colleghi e compromettere così irrimediabilmente la delicatissima funzione primaria delle istituzioni scolastiche: la formazione delle nuove generazioni. A nostro avviso la qualità deve essere la norma, non l’eccezione da premiare, per questo risulta fondamentale la selezione e una formazione iniziale completa ed efficace, mentre il monitoraggio dell’operato dei docenti deve mirare prioritariamente alla rilevazione di situazioni di irresponsabilità e inadeguatezza all’interno del corpo docente. Riteniamo comunque che questo delicato compito non possa essere affidato a “super-esperti esterni”, ma vada attribuito a personale appositamente selezionato (all’interno del corpo docente stesso) sulla base di competenze specifiche accertate mediante procedure concorsuali. Anche questo argomento è affrontato all’interno della legge A.C. 5075 a cui abbiamo accennato sopra.
Secondo voi è o non è necessario ipotizzare la definizione di un nuovo stato giuridico dei docenti?
Decisamente sì. È necessario svincolare gli insegnanti dall’attuale inquadramento di carattere impiegatizio per consentire il riconoscimento della loro professionalità e il conseguente adeguamento salariale alla media degli altri paesi europei.
Veniamo alla valutazione delle scuole. Che ruolo deve o può giocare la valutazione dei singoli istituti per il miglioramento del nostro sistema scolastico?
La valutazione delle singole scuole a nostro avviso deve avere come obiettivo il miglioramento della qualità dell’offerta formativa. Ciò premesso, a nostro avviso, i finanziamenti dovranno essere erogati in misura proporzionale alle esigenze delle scuole e quindi dovranno essere maggiori là dove le istituzioni scolastiche siano inserite in contesti di maggiore disagio sociale. Riteniamo invece del tutto inopportuna la logica contraria, attualmente in discussione, e che pretende di attribuire maggiori finanziamenti alle scuole i cui alunni abbiano ottenuto migliori risultati nelle prove Invalsi: si rischierebbe infatti così di premiare le realtà sociali già avvantaggiate, dal momento che non si può non riconoscere l’incidenza del retroterra culturale di provenienza degli alunni rispetto ai risultati di tali prove.
Cosa pensate delle rilevazioni nazionali Invalsi sull’apprendimento degli studenti? Rivoluzione civile cosa propone?
Condanniamo il carattere riduttivo e semplicistico dei test Invalsi, nonché le pratiche di addestramento che tali prove presuppongono e che rischiano di trasformare l’ordinaria attività didattica dei docenti in una palestra per rafforzare l’utilizzazione meccanica delle capacità logico-deduttive a scapito dello sviluppo del pensiero critico. Del resto questa pericolosa deriva è stata oramai riconosciuta ampiamente dai paesi anglosassoni, che hanno fatto fin ora un uso spropositato di questo tipo di test. I livelli di apprendimento degli studenti possono essere rilevati attraverso tipologie di prove più articolate, come avviene ad esempio per gli esami di maturità; dal confronto e dalla collaborazione tra docenti di scuole diverse si possono ottenere, a nostro giudizio, interessanti risultati in questo senso e siamo sicuri che, dalla valorizzazione delle esperienze migliori dei nostri insegnanti, potremmo elaborare preziosi modelli di riferimento per la valutazione degli apprendimenti degli studenti, eventualmente da sottoporre all’attenzione degli altri paesi europei.
La legge sulla parità scolastica (62/2000) comporta la distinzione tra scuole pubbliche e paritarie nel quadro di un unico sistema nazionale di istruzione e formazione. Secondo voi la parità può dirsi oggi realizzata?
Siamo dell’opinione che, come la nostra Costituzione prevede, le scuole private non debbano costituire un onere per lo Stato e del resto non possiamo esimerci dal denunciare i nefandi effetti che la legge 62/2000 ha visibilmente prodotto: ci riferiamo in particolare al proliferare dei diplomifici che hanno contribuito inevitabilmente al dibattito sul valore legale dei titoli di studio. Per quanto riguarda l’esercizio della libertà di scelta delle famiglie riteniamo che essa non sia comunque tutelata attraverso le sovvenzioni che lo stato può fornire: le scuole non statali di eccellenza hanno dei costi talmente elevati da comportare inevitabilmente l’esclusione degli studenti provenienti dalle fasce socio-economiche più disagiate.
L’autonomia scolastica oggi è da considerarsi già attuata? Secondo il suo partito, nel quadro di una autonomia compiuta (non solo funzionale ma anche giuridica e finanziaria) una scuola potrebbe ricevere direttamente risorse finanziarie? A quali condizioni?
Bisogna innanzitutto riconoscere le conseguenze negative che l’applicazione dell’autonomia scolastica ha comportato nelle scuole, a partire dalla trasformazione del preside in dirigente scolastico e dal conseguente logoramento del rapporto di reciproca stima e collaborazione tra docenti e preside esistente quando quest’ultimo era considerato un primus inter pares. Del resto la possibilità di applicare alla scuola il decreto Brunetta e quindi quei meccanismi punitivo-premiali per la valutazione della produttività dei dipendenti della pubblica amministrazione (come dicevamo sopra, tanto deprecabili nella scuola), non sarebbe stata così evidente senza la legge sull’autonomia scolastica.
Quindi?
A nostro avviso, le scuole devono essere interamente finanziate dallo Stato, in quanto solo lo Stato può essere garante della qualità dell’offerta formativa delle scuole e dell’omogeneità del sistema di istruzione su tutto il territorio italiano. Aprire le scuole pubbliche al finanziamento privato specialmente in un clima, come quello attuale, in cui lo Stato trova sempre meno risorse da destinare loro, potrebbe sortire il deprecabile effetto di determinare addirittura la soppressione degli istituti che non vengono considerati un investimento proficuo da parte di un privato. A fare le spese di queste scelte sarebbero come al solito le realtà sociali più deboli.