Dopo il Pdl e Rivoluzione civile, è la responsabile scuola del Pd, Francesca Puglisi, a parlare di programmi con ilsussidiario.net. Va così avanti il confronto a più voci, realizzato sulla base delle stesse domande, che questo giornale ha proposto alle principali formazioni politiche candidate alle elezioni del 24 e 25 febbraio. Dai precari all’autonomia, dalla spinosa questione della valutazione di docenti e scuole al reclutamento dei nuovi docenti fino ad autonomia e parità: ecco le proposte del partito che candida Pier Luigi Bersani alla presidenza del Consiglio.
Francesca Puglisi, ci dica qual è l’idea portante del vostro programma di coalizione, quella che dovrebbe distinguervi dalle altre forze politiche.
L’idea chiave è, prima di tutto, di metodo politico: la scuola ha subìto tagli, insulti e riforme calate dall’alto. Se vogliamo restituire centralità al sistema nazionale di istruzione, allora non possiamo che ripartire dalla condivisione. Qualsiasi legge, prima di divenire tale, dovrà essere una proposta discussa e condivisa dalla più larga parte del mondo della scuola. I partiti devono fare un passo indietro per poterne fare uno avanti: più umiltà nel confronto con i vari soggetti che lavorano e vivono nella scuola, più capacità di ascolto, e anche più lungimiranza, più capacità di guardare oltre. Questa restituzione di fiducia deve essere accompagnata da una restituzione delle risorse e per farlo dovremo agire sul bilancio dello Stato. Non vogliamo raccontare favole, quindi niente promesse mirabolanti, ma l’impegno concreto a riportare gradualmente l’investimento almeno al livello medio dei Paesi Ocse. Taglieremo altrove, poiché consideriamo l’istruzione un investimento e non una spesa, e le prime tre urgenze che affronteremo riguarderanno l’edilizia scolastica, la dispersione e l’organico funzionale.
A proposito di docenti. Prima del governo Monti è stato avviato dal governo Berlusconi il Tfa basato sulla separazione tra abilitazione professionale e reclutamento del personale. Il Tfa transitorio si sta svolgendo, pur in mezzo a difficoltà. Il Tfa ordinario dovrebbe partire subito dopo, come pure i Tfa speciali. Andrete avanti sulla strada intrapresa? Cosa intendete fare?
Abbiamo esaminato il regolamento del Governo sui Tfa speciali e crediamo che sia una soluzione ragionevole, e comunque parziale, al problema che riguarda decine di migliaia di docenti che da tempo attendevano un riconoscimento del lavoro che da anni svolgevano nelle scuole. Sappiamo che questa soluzione non accontenta tutti, sappiamo che non è certo risolutrice del precariato, ma sappiamo anche che si tratta di una giusta risposta a giuste esigenze. Dopo di che, ben altra è la strada che intendiamo percorrere se dovesse toccare a noi governare il paese. Dobbiamo metter mano al più presto a un nuovo modello di reclutamento, equo e trasparente, che dia certezze ai precari delle graduatorie e un percorso che offra ragionevoli speranze ai giovani che desiderano dedicare la propria vita professionale all’insegnamento.
Profumo ha bandito un concorso. Al tempo stesso la legislatura si chiude senza che un nuovo regolamento per il reclutamento dei docenti sia in vigore. Qual è il vostro progetto in merito? Come deve avvenire l’assunzione degli insegnanti: a) per impedire la formazione di nuovo precariato? b) per selezionare personale che sia effettivamente capace di insegnare.
Senza rifare la storia del reclutamento del personale docente nella scuola italiana, sappiamo bene come dagli anni 80 in poi, per la formazione e il reclutamento, siano state approvate continue riforme, che non hanno fatto altro che stratificare diritti, troppo spesso lesi, e sistemi ingarbugliati di punteggi, che di fatto hanno alimentato lo sfruttamento e la precarizzazione di una categoria importante, fondamentale per la vita del Paese, quale quella dei docenti.
A chi pensa esattamente?
Si pensi ai “sissini” (coloro che hanno frequentato le Ssis, ndr) contro i precari delle graduatorie, e poi ai precari favorevoli all’inserimento “a pettine” contro quelli favorevoli all’inserimento “a coda”, e oggi ai Tfa ordinari contrari ai Tfa speciali: tutto questo fa male alle persone e al sistema dell’istruzione, perché alla precarietà del vivere degli insegnanti, va aggiunto il danno della precarietà dell’apprendere. Migliaia di studenti ogni anno salutano maestri e professori a giugno, nella quasi certezza di non ritrovarli a settembre, dovendo quindi iniziare il proprio lavoro daccapo. La nostra proposta prevede un piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per eliminare la precarietà dalla scuola (non costa un euro in più stabilizzare chi lavora su posti vacanti) e offrire la necessaria continuità didattica agli studenti. Occorre, poi, un nuovo sistema che leghi la formazione iniziale al reclutamento, selezionando tramite concorso i migliori laureati per l’accesso alla formazione iniziale, secondo numeri programmati al fabbisogno; anno di prova attraverso tirocinio e supplenze brevi accompagnati da un insegnante esperto, firma del contratto a tempo indeterminato. Se tocca a noi, questo sarà il nostro impegno.
Si è parlato in tempi recenti di assunzione diretta dei docenti da parte di scuole o reti di scuole, sulla base dei posti disponibili e dell’offerta formativa di ciascuna scuola. Cosa ne pensa?
Siamo contrari all’assunzione diretta, poiché inevitabilmente porterebbe a favoritismi, a un crescente nepotismo, soprattutto in un paese come il nostro dove, e lo si è visto spesso purtroppo, già si fa fatica a rispettare le regole che ci sono. Un meccanismo di assunzione diretta non premierebbe gli insegnanti migliori, ma quelli che hanno più santi in paradiso o magari una certa tessera di partito o sindacale o associativa in tasca o quelli residenti in una zona piuttosto che in un’altra. Basta ricordare gli appelli leghisti per avere insegnanti “padani” nelle scuole del nord, per immaginare ciò che potrebbe accadere.
Si può valutare un docente? Perché e chi deve presiedere a questo compito?
La valutazione non può essere il “premio o la punizione” per il singolo docente, e il fallimento di Valorizza, il progetto del ministro Gelmini basato sulla “reputazione” individuale è lì a dimostrare come altri debbano essere i metodi. Crediamo che nella scuola non serva maggiore competizione tra docenti, ma una migliore collaborazione. Lo testimonia la scuola primaria, la scuola eccellente prima dei tagli, dove il lavoro e la cooperazione di quei team didattici che la Gelmini ha rottamato permetteva ai bambini e alle bambine italiane di avere livelli di apprendimento tra i più alti d’Europa. Quella cooperazione tra docenti andrebbe incentivata nella scuola secondaria di primo e secondo grado.
Alla valutazione deve o no corrispondere una diversa retribuzione? Ritiene che scatti e anzianità siano la sola strada possibile?
Gli scatti di anzianità non sono l’unica strada possibile per differenziare le carriere degli insegnanti. A quelli si possono aggiungere percorsi di valorizzazione delle competenze dei docenti, svolgendo appieno quella libertà di organizzazione della didattica che è stata già da noi introdotta con la legge dell’autonomia. Questa discussione deve essere affrontata con il nuovo contratto nazionale, che deve permettere una approfondita e aperta discussione per restituire prestigio alla professione di insegnante.
Secondo lei è o non è necessario ipotizzare la definizione di un nuovo stato giuridico dei docenti?
Dal Regio Decreto Casati del 1859 a oggi, qualche passo nello stato giuridico degli insegnanti è stato fatto, e quando è avvenuto un cambiamento giuridico, esso è sempre stato collegato a una profonda riforma del mondo della scuola. Anche in questa legislatura, il centrodestra ha provato a far passare un nuovo stato giuridico, mentre Tremonti stava portando alla scuola il più feroce attacco della storia repubblicana. Verrebbe da chiedersi, allora, se la modifica dello status non sia direttamente collegata al tentativo di modificare il dna della scuola italiana, trasformandola da istituzione eminentemente pubblica a istituzione privata.
Veniamo alla valutazione delle scuole. Che ruolo deve/può giocare la valutazione dei singoli istituti per il miglioramento del nostro sistema scolastico?
Un sistema di valutazione è indispensabile, perché è il giusto contraltare all’autonomia scolastica. La valutazione deve essere uno strumento di lavoro utile agli insegnanti e alle scuole per permettere di guidare i ragazzi e le ragazze ad avere livelli di apprendimento, abilità e competenza paragonabili ai loro coetanei europei. Più che il meccanismo premio/punizione, ci sembra utile una valutazione efficace che indichi e imponga percorsi di miglioramento (formazione, risorse tecnologiche e finanziarie) alle scuole che mostrano gravi deficit nell’offerta formativa.
Questo cosa comporta?
Siamo convinti che nessuna misura singola può cogliere tutti gli aspetti del lavoro educativo: occorre quindi combinare osservazioni da punti di vista diversi. Inoltre, nessun sistema di valutazione esterno è in grado di individuare il contributo del singolo docente: quello che conta è il risultato del lavoro di squadra di tutto il personale della scuola. La valutazione deve servire a far raggiungere a ciascuna scuola il massimo del proprio potenziale, accompagnandola verso il miglioramento, con l’istituzione di un unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la Ricerca Educativa. Quindi la valutazione deve essere riferita alla scuola nel suo insieme e basarsi su indicatori di apprendimento degli studenti, osservazione diretta di esperti, analisi dell’efficacia della scuola per gli sbocchi educativi o lavorativi successivi: il tutto ovviamente depurando dalle condizioni di partenza degli studenti e dal contesto socio-economico in cui opera la scuola.
Cosa pensa delle rilevazioni nazionali Invalsi sull’apprendimento degli studenti? Il suo partito cosa propone?
Non è con l’Invalsi che si alza il livello di apprendimento, ma le rilevazioni debbono essere uno strumento dato in mano agli insegnanti per capire se ciò che stanno facendo può essere migliorato. Crediamo anche che sia stato un errore utilizzare le prove Invalsi per dare voti ai ragazzi, e non si è investito abbastanza per aiutare il dialogo tra l’istituto e gli insegnanti, dialogo che va ripreso, sostenuto e migliorato.
La legge sulla parità scolastica (62/2000) comporta la distinzione tra scuole pubbliche e paritarie nel quadro di un unico sistema nazionale di istruzione e formazione. Secondo lei la parità può dirsi oggi realizzata? Cosa fare?
La legge di parità è stata votata da tutto il centrosinistra di governo, dai Comunisti italiani all’Udeur, ed è stata emanata perché in precedenza i fondi alle scuole private erano erogati senza alcun criterio. Ora possono ricevere fondi dallo Stato solo le scuole che svolgono una funzione di pubblica utilità. Sappiamo che i tagli del governo di centrodestra hanno danneggiato pesantemente sia le scuole statali, sia le paritarie. Oggi una contrapposizione non avrebbe senso: dobbiamo far sì che l’intero sistema nazionale, rispettando rigorosamente le leggi, faccia un passo avanti per il bene del Paese.
L’autonomia scolastica è da considerarsi già attuata? Secondo il suo partito, nel quadro di una autonomia compiuta (non solo funzionale ma anche giuridica e finanziaria) una scuola potrebbe ricevere direttamente risorse finanziarie? A quali condizioni?
L’autonomia scolastica è ancora tutta da realizzare, e con i tagli dei governi di centrodestra, con la concezione della scuola come specchio della società, anziché come ascensore sociale, ben difficilmente si sarebbe potuta attuare. Autonomia non significa, però, parcellizzare il sistema scolastico italiano in tante scuole dotate ognuna di un proprio status giuridico e finanziariamente lasciate ai propri destini. Dobbiamo tornare a rileggere con attenzione la nostra Carta Costituzionale: la scuola non è un “servizio” che lo Stato eroga ai cittadini, dobbiamo invece considerarla un vero e proprio organo costituzionale, cui è affidato il compito, dall’articolo 3 della Costituzione, di rimuovere gli ostacoli di origine economica e sociale che si frappongono fra i cittadini e la loro piena partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. Pensare a una “scuola di mercato” significherebbe ingessare per sempre le differenze di censo e rinunciare a ogni prospettiva di reale mobilità sociale. I livelli di apprendimento che dobbiamo garantire dovrebbero essere uguali da Aosta a Lampedusa, dal centro di Milano alla sua periferia, e per far questo dobbiamo mantenere forte un sistema nazionale pubblico di istruzione. Autonomia significa meno burocrazia, meno centralismo verticistico ministeriale, più spazio alla innovazione didattica, più responsabilità per i vari attori della scuola, non significa che lo Stato detta le regole e poi fa da arbitro, significa anzi che lo Stato e gli enti locali, secondo responsabilità ben definite, sostengono le scuole, i docenti, gli studenti, i genitori, gli Ata, le istituzioni pubbliche e private, affinché il sistema funzioni meglio.
Quindi?
Credo che sia necessaria una forte collaborazione tra scuole, enti locali e imprese per rilanciare l’istruzione e la formazione tecnica e professionale e sostenere il Made in Italy nel mondo. Siamo stati un grande Paese industriale quando abbiamo avuto eccellenti periti industriali. Vogliamo investire nella costituzione di poli dell’istruzione e formazione tecnica e professionale dove si possano innescare virtuose sinergie tra scuole, enti di formazione, mondo dell’università e della ricerca, imprese, enti locali. È necessaria una strategia nazionale che preveda la piena realizzazione di “tutti i tasselli” delle filiera professionalizzante − percorsi di IeFp, Ifts, Its; apprendistato – individuando anche nella nuova programmazione comunitaria le risorse finanziarie necessarie.