Secondo un sondaggio di Skuola.net uno studente su quattro con il “debito” non può accedere a corsi di recupero organizzati dalla scuola e uno su due preferisce lo studio fai-da-te rispetto alla frequenza delle lezioni pomeridiane salva-insufficienze. Non è detto che siano dati perfettamente combacianti con la realtà, ma è certo che si avvicinino molto, il che urge una riflessione tempestiva e precise iniziative per porre fine ad una delle riforme più fallimentari del sistema scuola.
Sono molte le difficoltà e le contraddizioni che vanno a penalizzare ulteriormente gli studenti già in difficoltà, che lungi dall’essere aiutati o sono “sanati” oppure vengono di fatto persi, volutamente persi. Il sistema del recupero ha ampiamente dimostrato di essere inadeguato, perché con questo meccanismo la scuola si mette a posto la coscienza ma non riesce ad affrontare la questione sempre grave della dispersione scolastica, e così rimane ad incombere sul suo pachidermico procedere il monito di don Milani, “il problema della scuola sono i ragazzi che perde”.
Perché il sistema non funziona? Per due ordini di ragioni. Il primo riguarda la difficoltà della scuola a dare a tutti gli studenti la possibilità di recuperare i debiti, sia per una insufficienza di fondi sia perché organizzare corsi per ogni disciplina è irrealistico oltre che impossibile. Il secondo riguarda il metodo cui questi corsi obbediscono, che si sta rivelando anno dopo anno sempre più inadeguato rispetto al bisogno che gli studenti denunciano con i loro fallimenti scolastici. È l’idea stessa del corso di recupero ad essere profondamente sbagliata come concezione e inefficace nella pratica. Uno studente che ha bisogno di recuperare, lungi dal trovare un aiuto a sé, si trova a dover frequentare con altri dieci o quindici studenti un corso che ripete quello che non ha capito dentro la normale attività scolastica. In pratica si affida ad un corso la speranza di un improbabile recupero, per cui alla fine c’è chi grazia il condannato, c’è chi invece lo condanna, anche se il risultato è lo stesso ovvero il corso non ha portato ad un miglioramento reale nell’apprendimento.
Chi governa la scuola deve capire che l’errore sta proprio nell’aver voluto istituire dei corsi di recupero, mentre il bisogno di uno studente in difficoltà è quello di incontrare uno sguardo su di sé, un rapporto ad personam dentro il quale fare un lavoro per apprendere ciò che non si è capito, per colmare le proprie lacune. E non è un’analisi a dirlo, ma esperienze reali come quella di Portofranco, una associazione di volontari, che opera sul territorio nazionale e che interviene entrando in rapporto con i ragazzi e le ragazze in difficoltà e facendo con ognuno e ognuna di loro un percorso personale.
Mentre i corsi di recupero delle scuole falliscono, associazioni di volontariato come quella riescono a condividere il bisogno di imparare di tanti studenti e lo fanno grazie alla dedizione gratuita di tanti insegnanti e studenti universitari che dedicano parte del loro tempo libero ad aiutare chi ha delle lacune nella preparazione a trovare la strada per colmarla.
Da questa esperienza emerge un dato significativo, e cioè che uno studente in difficoltà non è aiutato da un corso, ma da uno sguardo umano, segno che la scuola perde tanti studenti perché li considera un numero, mentre essi per imparare hanno bisogno di sentirsi voluti bene. Si tratta allora di fare una riforma radicale? No. Semplicemente la scuola dovrebbe fare un passo indietro e riconoscere che dove lei fallisce c’è chi riesce. E allora dovrebbe semplicemente valorizzare questa ricchezza del volontariato per la capacità che ha di intervenire sul grave fenomeno della dispersione scolastica.
Ma per fare questo ci si dovrebbe liberare dallo statalismo che all’istituzione demanda tutto, per riconoscere che nella realtà c’è chi sa condividere meglio il bisogno e sa rispondervi. Il problema è se interessa di più che lo studente colmi le sue lacune o che l’istituzione tenga in mano tutto, proprio tutto.