Anche il XV Rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati, suggestivamente sottotitolato da Andrea Cammelli Investire nei giovani: se non ora, quando? offre molti spunti di riflessione, grazie al rigore e alla analiticità con cui le indagini vengono condotte dal Consorzio.

Mi fermerò solo su alcuni dei molti aspetti che meriterebbe approfondire.



La prima considerazione è relativa al “deterioramento delle performance occupazionali dei laureati. Deterioramento che si riscontra non solo tra i neo-laureati, i più deboli sul fronte occupazionale perché con minore esperienza, ma anche tra i colleghi laureatisi in tempi meno recenti. Sia ad uno che a tre anni dal titolo, infatti, il confronto con le precedenti rilevazioni evidenzia un generale peggioramento degli esiti occupazionali”(pag. 9).



Il dato è interessante se letto insieme ad un’altra importante considerazione contenuta nel Rapporto e cioè che tale deterioramento inizia a verificarsi a partire dal 2000, senza particolari distinzioni tra laureati triennali, specialistici e pre-riforma, contrariamente a quanto normalmente si ritiene e cioè che i datori di lavoro guardano con sfavore ai laureati post-riforma. 

Questi elementi spingono a ritenere che la crisi economica del 2008 ha solo aggravato una situazione che già da parecchi anni si era manifestata, e che ha probabilmente origine in uno scollamento sempre più evidente nel mondo della formazione universitaria: il valore legale del titolo di studio non trova riscontro nelle effettive competenze acquisite con il titolo stesso. In altri termini, e sempre parlando in linea generale, il titolo di studio ha perso il suo valore legale dal punto di vista “sostanziale”. 



Ciò spiega almeno altri due dati contenuti nel Rapporto. Il primo, che “a parità di condizioni i laureati triennali ad un anno dalla laurea hanno una probabilità di occupazione più elevata di quelli specialistici” (pag. 11), che significa che i datori di lavoro preferiscono assumere giovani ancora da formare completamente, sia perché li pagano di meno, sia perché preferiscono formarli in proprio.

Il secondo è che oggi solo il 30 per cento dei diciannovenni si iscrive all’università (pag. 34) che equivale a dire che nei ragazzi che hanno concluso il percorso della scuola secondaria superiore l’appeal della laurea è molto basso. A questo punto si capisce anche perché il nostro Paese nel 2010 si trovava agli ultimi posti per la quota di laureati sia per la fascia di età 55-64, sia per quella 25-34 (pag. 15).

Tuttavia il problema non va affrontato da quest’ultimo punto di vista, nel senso che non dobbiamo rincorrere a tutti i costi l’obiettivo di aumentare il numero di laureati, anche a costo di continuare ad erogare titoli sempre più “leggeri”. 

Dovremmo, invece, coraggiosamente e in una prospettiva di lungo periodo e di sviluppo vero del Paese, tentare di riallineare il valore legale del titolo con quello sostanziale: dobbiamo mettere in condizione i nostri ragazzi di avere una formazione che li renda cittadini del mondo, che costituisca per loro un vero ascensore sociale. Solo puntando su una politica di questo genere possiamo ragionevolmente sperare che la laurea torni ad essere appetita e il numero dei laureati torni a crescere. Insomma bisogna affrontare il problema alla radice: l’offerta formativa delle nostre università è sempre meno all’altezza dello sviluppo di un Paese competitivo.

Per questo concordo completamente con l’osservazione di Cammelli quando scrive: “l’università, oggi più che mai, nel progettare l’offerta formativa non può guardare solo alla domanda che viene dalla società contemporanea, si potrebbe dire in un’ottica di breve periodo, ma deve fornire una preparazione solida dal punto di vista teorico e funzionale ad attività professionali che richiedono un’elevata qualificazione: «Oggi i sistemi di istruzione devono preparare per lavori che non sono stati ancora creati, per tecnologie che non sono ancora state inventate, per problemi che ancora non sappiamo che nasceranno»” (Andreas Schleicher, responsabile della Divisione Indicatori e Analisi dell’Ocse) (pag. 27).

La seconda considerazione è che la questione del disallineamento tra valore legale e valore sostanziale del titolo a livello universitario riproduce esattamente la stessa dinamica a livello della scuola media superiore. Uno scollamento che si ripercuote drammaticamente sulla testa dei nostri ragazzi che vengono illusi da un sistema che li promuove ma che non gli fornisce gli strumenti culturali adeguati per muoversi nel mondo. Le indagini Ocse-Pisa ci dicono che i nostri 15 enni sono indietro rispetto ai loro coetanei di molti Paesi nelle abilità di base come lettura e comprensione di un testo, e matematica. Ed allora non si può nuovamente che concordare con Cammelli quando osserva che “è indubbio che le università e i singoli docenti dovrebbero impegnarsi di più al fine di sviluppare modalità didattiche funzionali a potenziare queste competenze essenziali nel mondo del lavoro. Occorre però rilevare che si tratta di competenze che andrebbero sviluppate soprattutto nel corso della scolarizzazione primaria e secondaria: l’università non è nelle condizioni di svolgere funzioni di supplenza rispetto a questo compito” (pag. 30).

La terza considerazione riguarda le diseguaglianze di genere, non compensate da livelli di istruzione più elevati. Quasi ovunque le laureate raggiungono risultati migliori rispetto ai loro colleghi uomini, ma a ciò non fa riscontro un posizionamento migliore nel mondo del lavoro, ed anzi l’occupazione italiana è meno favorevole nei confronti della popolazione femminile (pag. 17).

Questa considerazione ne trascina con se inevitabilmente un’altra e cioè che il livello di integrazione tra sistema formativo e mercato del lavoro nel nostro Paese è ancora allo stato embrionale, e ciò costituisce un grave freno, in generale per lo sviluppo di entrambi. 

Un mondo del lavoro, sia pubblico che privato che non scommette sull’università e non finanzia adeguatamente la ricerca universitaria è destinato, nel lungo periodo, a non svilupparsi esso stesso; mentre una università che non cerca di capire cosa non funziona nel modo di preparare i suoi ragazzi, anche attraverso un dialogo con il mondo del lavoro, smarrisce uno dei cardini del suo valore sociale: formare la classe dirigente del Paese.