Caro direttore,
quella che segue è una reazione a caldo, ma non troppo. Il Corriere della Sera di domenica 17 marzo riporta, nella pagina di cronaca milanese, la notizia che in un blasonato liceo classico cittadino (il Manzoni, ndr) il dirigente scolastico si è visto costretto a “separare” (cioè ad assegnare a classi diverse) due insegnanti ritenute troppo “severe”; questo nonostante le proteste degli studenti delle due insegnanti. Qual è l’indicatore di severità adottato dal dirigente? Ovvio, la perdita di clienti (pardon, “utenti”): troppi studenti di quella classe hanno cambiato scuola, e la classe rischia di dover essere smistata, perché potrebbe mancare il numero minimo di studenti previsto dagli attuali, strettissimi, parametri per l’attivazione di una classe. E la perdita di una classe significa anche la perdita di cattedre per gli insegnanti…
Non conosco le persone oggetto del fatto, quindi mi limito ad una serie di considerazioni-domande generali.
1. Perché fa notizia il fatto che un dirigente scolastico debba “sostituire” (questo il verbo usato nel titolo) due insegnanti per la loro rigorosità, mentre non fanno notizia i numerosi, ahimé, casi di dirigenti costretti a “sostituire” (cioè a separare) docenti incompetenti o incapaci di gestire la classe o, caso non peregrino, psicolabili? Perché una notizia del genere costringerebbe a porsi qualche domanda sul modo in cui i docenti vengono reclutati; sul reale potere dei dirigenti scolastici nel dirigere la loro scuola, e nel poter scegliere i docenti; sul fatto che ormai la professione insegnante è una tra le più screditate socialmente ed economicamente, e quindi ad essa si dedicano non i migliori, ma coloro che non riescono a trovare occupazione in altri settori.
2. Perché un dirigente scolastico si premura di far sapere alla stampa che nella sua scuola le insegnanti “severe” non hanno vita facile? E lo fa addirittura con sei mesi di anticipo, dal momento che la “sostituzione” diventerà operativa solo a partire da settembre, cioè dal prossimo anno scolastico? Non bastava aver preso il provvedimento, già di per sé quantomeno discutibile, come dimostrano le proteste degli studenti interessati? Forse che si vuole lanciare un messaggio positivo e rassicurante alla potenziale utenza?
3. Ma il problema reale che notizie del genere mi sembra contribuiscano ad eludere o quantomeno a non affrontare è, a mio parere, il seguente: che cosa si chiede oggi alla scuola e agli insegnanti? O, visto dalla parte dei docenti, che cosa significa e che cosa comporta oggi insegnare? Dobbiamo dire a tutti gli studenti che sono bravi e adeguati per il percorso scolastico che hanno scelto, anche quando evidentemente non è così?
Credo anch’io che le ripetenze non servano a molto, e che l’ideale sarebbe la possibilità di costruire percorsi personalizzati per ogni studente, o quanto meno per studenti del medesimo livello. Ma questo è appunto “l’ideale”: la dura realtà, ma realtà, è che i percorsi sono standardizzati e uguali per tutti (coloro che abbiano scelto un medesimo indirizzo); quindi, o lo studente si adegua al percorso (e non viceversa) o al percorso non può che rinunciare, dal momento che non riesce a percorrerlo.
La soluzione più adottata e che riscuote maggior successo – soprattutto, inutile dirlo, tra i genitori – è quella di “semplificare”, diciamo così, il percorso, cioè abbassare drasticamente i livelli di insegnamento/ apprendimento. I risultati di simile politica sono sotto gli occhi di tutti: penalizzazione delle eccellenze, mediocrità dei risultati raggiunti e, last but not least, diminuzione del numero dei laureati; una delle cui cause, a mio avviso non abbastanza messa in luce, è il fatto che la scuola superiore non prepara più in maniera adeguata ad affrontare gli studi universitari.
Insieme a questa personalizzazione dei curricula, dovrebbe essere introdotta anche la da molti auspicata abolizione del valore legale del titolo di studio, che toglierebbe ragion d’essere alle stesse ripetenze: non ci sarebbe più una soglia minima di conoscenze-competenze che è necessario raggiungere per essere ammessi al livello successivo o per poter uscire dal sistema; al termine del percorso curriculare, allo studente verrebbe rilasciato un certificato che attesta i livelli di competenze e conoscenze da lui acquisiti, qualsiasi essi siano.
Mancando le condizioni sopra sommariamente descritte, perché accanirsi contro e penalizzare quei sempre meno numerosi docenti che con eroica ed encomiabile tenacia cercano di fare quello che è il loro lavoro, cioè insegnare? E insegnare può anche significare dover dire a qualcuno “Non hai studiato abbastanza” o “Non hai studiato nel modo giusto” (dandogli la valutazione che si merita, foss’anche – Dio non voglia! – un quattro) o “Questo percorso di studi non è quello che si confà alle tue caratteristiche cognitive: è meglio se cambi”.
Non è ulteriormente tollerabile che le aporie e i paradossi di un sistema al collasso, quello della scuola italiana, palesemente inadeguato al conseguimento dello scopo per cui esiste, vengano fatte ricadere sulle spalle degli insegnanti!