Estate 1999, il collega è molto bravo e molto colto. Racconta del suo sgomento di fronte ai disastri ortografici del figlio, allievo delle elementari. “Le maestre mi hanno detto che l’ortografia non è un obiettivo!”. Pochi anni fa, Università Statale di Milano, convegno Giscel. Il fondatore Tullio De Mauro interloquisce con un relatore e butta lì, con tutto il peso della sua autorevolezza di grande linguista: “Non ditemi che correggete ancora gli errori di ortografia!”
Questo per dire che i guai dell’ortografia cominciano assai prima della nouvelle vague digitale e multiconnessa. D’altronde, l’ortografia rappresenta il punto di massima distanza tra la nobiltà teorica della regola e l’umiltà pratica della norma, semplice convenzione che richiede bonaria volontà di andar d’accordo, non potendo accampare alcuna intrinseca necessità. E poi, sempre assai imperfetta è l’ortografia, e irrazionale, e capricciosa, pur in una lingua in questo campo baciata dalla sorte, come l’italiano. Insomma, l’ortografia è come le buone maniere, relativissimo codice che nulla dice delle doti dell’animo o della bontà delle intenzioni e che facilmente presta il fianco alle ironie del filosofo morale o dello spirito libero che ne registra la tartufesca vuotaggine. E che, se comincia da giovane e incontra larghi consensi, continua a farlo anche quando, ormai, l’oggetto del dileggio è sparito, senza lasciare al suo posto nessun vantaggio di consapevolezza o autenticità, ma solo un gran vuoto. Non è una riflessione originale: tutti sappiamo che la generazione della critica corrosiva delle convenzioni è stata molto più brava in questo che nella loro sostituzione con l’autentico; che è stata mentalmente un po’ pigra, continuando a perseguire la liberazione dalle strettoie di formalismi che ormai non stringevano più nessuno perché da tempo obliati.
Certo, non si può negare che la questione della correttezza formale nel suo complesso si sia anche guadagnata l’antipatia che l’ha colpita. Non si può negare, cioè, che sia stata brandita per molto tempo come strumento ad excludendum, spesso odiosamente collegato a motivazioni sociali.
Oggi però la questione si pone in termini diversi. Per cominciare, diamo una sguardo al mondo degli adulti.
Non occorre essere fini osservatori per constatare il degrado avanzante: innumerevoli occasioni quotidiane (ambiente di lavoro, opuscoli di ogni genere, libretti di istruzioni) ci mettono sotto gli occhi testi variamente sfregiati, tanto più dannosi o, a seconda dei casi, fastidiosi fino alla tortura psicologica, quando si tratta, evenienza non rara, di testi a qualche titolo formali che siamo obbligati ad usare – e il pensiero va qui naturalmente alla debordante burocrazia, sempre più stratificata ed invadente, sempre più decentrata e quindi fai-da-te.
Attenzione: qui non si sta parlando delle quattro parole maldestramente messe in fila da adulti poco scolarizzati in rarissime occasioni, per lo più private. Quello cui oggi assistiamo è un fenomeno diverso, di cui sono protagoniste persone con grado d’istruzione anche elevato per le quali la redazione di testi è parte integrante dell’attività lavorativa, in una temperie socio-culturale che ha visto crescere in modo esponenziale, insieme alla complessità organizzativa, la mole di testi funzionali.
Le nuove tecnologie non sono certamente imputabili di avere creato un problema la cui analisi è ben più complessa. Si può dire almeno che lo enfatizzino? Certamente, per diversi motivi. In primo luogo, perché hanno reso possibile una rapidità di produzione di documenti scritti prima inimmaginabile; in secondo luogo, perché con grande facilità qualunque accozzaglia di segni linguistici assume un aspetto esteriore uguale a quello dei testi stampati, il che ha reso ondivago e impercettibile il confine tra il prodotto privato e approssimativo, della cui modesta levatura in passato l’autore era consapevole, e il testo degno di essere adibito a una destinazione pubblica. Il terzo motivo è legato all’enorme prestigio del mezzo, che fa sì che non la qualità del testo ma l’abilità nell’uso della macchina sia sentita come la prima fonte di legittimazione.
Per tornare alla scuola, non si passa indenni attraverso interi lustri in cui, significativamente, l’informatica (in senso assolutamente generico) è stata una priorità a cui le diverse discipline sono state chiamate a rendersi funzionali. Il prestigio sociale di un sapere è fondamentale nel determinare l’atteggiamento di colui che insegna e di colui che deve imparare, rendendo il primo più o meno sicuro e determinato, il secondo più o meno attento e gratificato dai risultati. Tanto più quando l’abilità nell’uso di certi mezzi è dichiarata necessaria per accedere a un buon futuro professionale e la loro esibizione in forme sempre nuove e ultimo modello permette di accreditarsi fin da subito tra coloro che “possono”, mentre, d’altro canto, la correttezza di scrittura si trasmette e si ottiene attraverso strumenti di valore economico insignificante e pare aprire la strada solo a carriere in rapida discesa nella scala della ricchezza e della considerazione sociale.
E infatti, mentre sempre più spesso voci anche scientificamente autorevoli suggeriscono dubbi sul destino di generazioni sottoposte in modo massiccio, si può dire dalla nascita, a connessioni continue e multiple, dai responsabili della scuola, da cui sarebbe ragionevole attendersi cautele, giungono solo esortazioni ( quando non obblighi) a correre più velocemente in questa direzione, senza mettere in preventivo, a quanto si sa, neppure qualche strumento di monitoraggio degli esiti.
È luogo comune che la scuola elementare sia il segmento migliore del nostro sistema di istruzione. Anche per questo, forse occorrerebbe prudenza nel considerare sempre e comunque migliorativo l’apporto tecnologico: perché rischiare di compromettere qualcosa che funziona? In ogni caso, senza mancare di rispetto a nessuno, si potrebbe forse osservare che le gravi difficoltà in cui si dibatte la scuola media di primo grado interrogano i risultati del ciclo precedente che, seppure buoni, non appaiono però molto solidi, vista la rapidità con cui si deteriorano quando il rinforzo non è più continuo ed esclusivo. Quando si tratta, insomma, di usare lettura e scrittura per fare altro, quando si deve leggere un libro non per fare esercizio di lettura ma per trarne informazioni o sintesi, ad esempio. Quando si deve scrivere non per esercitarsi a scrivere correttamente ma per esprimere un pensiero o esporre un’informazione. Quando i tempi della comunicazione accelerano, rendendo insufficiente l’apprendimento osmotico, per immersione nell’ambiente, e richiedendo anche il sussidio di lettura e scrittura individuale.
La scuola reagisce generalmente prolungando, da un ciclo all’altro, le attività di rinforzo diretto delle abilità di base, rallentando i ritmi, rarefacendo le informazioni, diluendo i concetti.
Un allievo del biennio della secondaria di secondo grado ha normalmente interiorizzato questo schema: non è necessario che ricordi niente di ciò che gli è stato già insegnato, tutto verrà ripetuto. I contenuti specifici dell’insegnamento dell’italiano sono in sé poco importanti, sono in realtà soltanto un materiale tra i molti possibili per esercitare le abilità di base, il cui rinforzo è compito prioritario della scuola. Della scuola, appunto. Non dello studente. Nessuno chiede a lui di cambiare. Nessuno gli chiede conto delle tante occasioni in cui gli è già stato insegnato ciò che si permette di non ricordare. Nessuno gli imputa nulla. Ma se non ti imputano nulla non sei un uomo, sei la materia di un ciclo di lavorazione che deve funzionare malgrado te, su cui altri indagano, correggono e progettano.
Sic rebus stantibus, l’insegnante di italiano del biennio può fare qualcosa?
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