L’episodio avvenuto in una scuola dell’infanzia di Roma in questi giorni (la richiesta di due donne omosessuali di non festeggiare la festa del papà per non imbarazzare la loro bambina che non ha padre, ma due madri, quella naturale e la sua compagna) suscita in noi alcune essenziali riflessioni, mosse dal tentativo di usare la ragione rimanendo aderenti a ciò che l’esperienza rende trasparente.



La prima: la persona vale. Qualunque persona, quali che siano le sue caratteristiche e le sue condizioni, vale in assoluto: stiamo con questa verità e con questa scelta di campo, figlia dell’umanesimo cristiano e della civiltà giuridica, purtroppo non irreversibile e perennemente in pericolo (come dimostra la contemporanea svalorizzazione di chi non risponderebbe agli standard sociali della “qualità della vita”). Non esistono scarti della creazione o della storia, non esistono figli di un dio minore. Va ribadito, per evitare ogni equivoco quando si discute della realtà dell’omosessualità: tema di grande complessità e delicatezza, che necessiterebbe di onestà intellettuale e pacatezza, e non di esasperazione ideologica e superficialità (come purtroppo sempre più spesso accade quando si prova a discuterne).



La seconda: nel processo di crescita armonica della persona un rilievo decisivo ha (sempre, ma soprattutto nel nostro tempo) quella componente del nostro essere in cui si rivela il suo strutturale essere in relazione: l’identità-differenza sessuale. Si tratta di  una realtà oggi “terremotata”, messa pesantemente in discussione da un mainstream sempre più diffuso, che sta facendo artatamente diventare sensibilità corrente e senso comune ufficiale (come dimostrano fiction e canzoni, dichiarazioni di star hollywoodiane e di celebrati maîtres à penser) la filosofia del Gender: l’identità sessuale non sarebbe una datità originaria ma una mera costruzione socio-culturale e soprattutto una scelta individuale, aperta al passing identitario tra le cinque configurazioni sessuali che, secondo alcuni documenti di altissime istituzioni sovranazionali, avrebbero oramai sostituito le tradizionali due, retaggio di un remoto passato.



La terza: ci permettiamo di dubitare che la strada che le classi politico-culturali oggi dominanti sembrano volere imboccare costituisca realmente un passo avanti in direzione dei diritti della persona e del rispetto della differenza. Ci sembra piuttosto emergere, soprattutto in Occidente, un inquietante cupio dissolvi: un nuovo dogmatismo s’avanza, senza farsi sfiorare dal dubbio che rischiamo di toccare uno dei fondamentali dell’umano. La plurimillenaria esperienza dell’umanità ci consegna un ramo sul quale siamo stati finora seduti: rischiamo di tagliarlo come se si trattasse di un’operazione indolore e innocua.

Ed ancora: una certa esaltazione della differenza non pratica e promuove piuttosto l’in-differenza, alludendo ad un umano androgino oppure opponendo radicalmente il maschile e il femminile? Mentre si esalta la differenza, in fondo la si teme e la si nega.

La quarta: i luoghi educativi non possono diventare terreno di scontro, perché sono chiamati invece a custodire l’umano. Davvero al centro di certe pubbliche prese di posizione c’è la preoccupazione per i bambini, o non piuttosto i desideri degli adulti di voler (ad ogni costo) vedere legittimati dalla forza della legge i propri desideri ed i propri stili di vita? 

Nei luoghi educativi noi impariamo la prima grammatica dell’umano: il vero e il falso, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto. Anzitutto nella famiglia, che ci offre con i legami di attaccamento primordiale quella “base sicura” di cui parla J. Bowlby, fondamentale per ogni nostro passo successivo; e che (non in qualunque sua configurazione) ci testimonia concretamente il valore simbolico e la fecondità della differenza sessuale, paradigma di una relazione capace di produrre novità reale. 

E poi in quel secondo luogo educativo che è la scuola, che non può essere neutra rispetto alla verità dell’umano, e che è chiamata a partire nel suo quotidiano impegno da un’umanità presente (quella dei soggetti che le sono affidati, con i loro reali bisogni di crescita), non da un’umanità futura da produrre grazie ai progetti ed alle sperimentazioni degli educatori. Essendo il primo luogo di socializzazione delle giovani generazioni essa è un terreno particolarmente delicato e decisivo: nella scuola si manifesta infatti pubblicamente il modo in cui la generazione adulta concepisce e pratica il compito educativo, premessa del mondo che sarà. Custodia o indefinita manipolazione?

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