Da almeno ottant’anni, in Italia, si prova sistematicamente a distanziare scuola e università dal mondo delle imprese. Già germogliavano i semi di questo nefasto tentativo quando negli anni cinquanta e sessanta le iscrizioni agli istituti tecnici aumentarono addirittura del 73%, rendendo possibile il boom economico del dopoguerra. L’esplosione della fantasia manifatturiera della piccola imprenditoria nostrana arrestò provvisoriamente il paradigma pedagogico “separatista”, che invece si diffuse prepotentemente dal 1975, quando iniziò un processo mai arrestatosi di liceizzazione. 



Il paradigma separatista è quello predicato dai sacerdoti della “teoria dei due tempi”: «prima la cultura, poi la professione, prima lo studio scolastico e universitario, poi un lavoro». Di conseguenza (ecco la separazione): prima scuola e università, poi (solo se non si possono continuare gli studi) il lavoro. I mondi sono diversi e non vanno gettati ponti di comunicazione, per non contaminare la purezza del primo con la corruzione e sfruttamento del secondo.



Fare laboratorio, l’ultimo libro curato da Giuseppe Bertagna ed edito da La Scuola, va nella direzione esattamente opposta. Unità, integrazione, ricomposizione, intreccio, meticciamento sono le dimensioni di un rinnovato rapporto tra formazione e lavoro. Poco più di 400 pagine interessanti non solo per il pedagogista o l’educatore, ma per tutti coloro che si stupiscono delle croniche contraddizioni del nostro Paese: elevato numero di disoccupati, ma quasi il 20% dei lavoratori cercati considerati di “difficile reperimento”; economia a vocazione manifatturiera, ma scarsissima diffusione tanto di apprendisti che di lavoratori qualificati; percentuali di piccola-media impresa superiori al 95%, ma scarsa autoimprenditorialità dei giovani; frequenti critiche a scuola e università, ma diffuso senso di inferiorità dei non laureati (alcuni fatti degli ultimi mesi sono eloquenti in questo senso).



Le ragioni degli squilibri del nostro mercato del lavoro sono numerose, ma certamente la formazione dei giovani, e quindi l’orientamento pedagogico e il livello qualitativo di scuola e università, ha più responsabilità di altre. Pesa innanzitutto il ritardo nel comprendere che «è finita l’epoca in cui, prima, ci si preparava a svolgere un lavoro e, poi, dopo la fase della preparazione, si esercitava questo lavoro, magari per l’intera vita». La formazione è, invece, processo circolare, non consecutivo: teoria e pratica devono continuamente intrecciarsi, scuola università e lavoro integrarsi in un cammino unitario. È l’unica via per lasciarsi alle spalle «la caramellosa e pervasiva demagogia del cosiddetto merito scolastico. E cioè che chi studia sarebbe “intelligente, eccellente e meritevole”, mentre chi lavora non potrebbe ambire agli stessi riconoscimenti e, quindi, non essere, di per sé, né intelligente, né eccellente, né meritevole». 

Così scritta questa prospettiva ci pare esagerata, se non irreale, ma di questa cultura siamo completamente impregnati. Chi ammiriamo e celebriamo di più, tanto nei discorsi privati che nelle relazioni pubbliche: l’apprendista meccanico o il ricercatore universitario (magari “cervello in fuga”, così il cocktail conformistico è completo)?

Il rapporto tra formazione e lavoro, invece, rende evidente che non c’è scienza senza la disponibilità di una tecnologia e di varie tecniche adeguate ad elaborarla; non esiste nessuna tecnologia che possa prescindere dalla scienza intesa come riflessione critica su di essa. Perché questo scambio possa avverarsi è necessario che il lavoro di didattica e di ricerca che si conduce nelle istituzioni di istruzione e di formazione secondarie e superiori abbia relazioni costanti con i processi di produzione, sviluppo e ricerca applicata che si svolgono nelle imprese, nelle istituzioni e nelle dinamiche sociali di un territorio. Allo stesso modo è di assoluto interesse per queste realtà collaborare con le istituzioni formative per allargare gli orizzonti, aggiornarsi, modernizzarsi. Insomma fare anche più profitto se non si è sensibili allo scopo sociale o critico-educativo dell’impresa.

Didatticamente non si può supporre di cogliere questo obiettivo attrezzando in scuole e università laboratori che finiscono per essere luoghi dove «esporre strumenti costosi, ma destinati all’acchiappapolveri e alla rapida obsolescenza» o ambienti ancora una volta «coerenti con la teoria dei due tempi», dove il modello è quello «dell’auditorium, dove si “ascolta una lezione” e non del laboratorium, dove “si fa una lezione”, proprio nel senso di co-costruirsela, co-farsela, co-modellarsela con i compagni, con i docenti, con il tutor aziendale ecc…». È questa la differenza tra «didattica di laboratorio» e «didattica laboratoriale»: la prima è separatista, ultimamente tradizionale nell’organizzazione, anche se diversa nella location; la seconda è fondata sulla «sincronicità tra teoria e pratica».

Il titolo del volume può quindi trarre in inganno: i diversi contributi che lo compongono non intendono difendere un metodo, quale quello del laboratorio classicamente inteso, attento a mediare il rapporto tra la realtà e lo studente, silenziandola e attutendone l’impatto. Al contrario, l’obiettivo è quello di «collocare le potenzialità formative del laboratorio nel più ampio scenario di un sistema educativo che è sempre più centrato sulla circolarità tra lavoro e scuola, cultura e impresa». 

Il titolo, nella sua estrema sintesi, seppure caratterizzata dall’eloquente verbo “fare”, chiaramente in contrapposizione al “pensare”, è forse la nota più stonata di tutto il lavoro, poiché mal dispone il lettore – quantomeno quello proveniente da altri ambiti, come il sottoscritto − orientandolo verso un filone letterario ben diverso, come contenuti e riferimenti culturali. 

Maggiormente si poteva puntare sul concetto di alternanza formativa, pure molto trattato nella pagine interne, intesa come «intreccio pedagogico-didattico strutturale che esiste tra teoria e azione, tra cognitività e manualità, tra esperienza formativa intenzionale (insegnamento) e funzionale (apprendimento), tra le discipline adoperate come mezzi per il lavoro e per la vita e le discipline considerate fini culturali da apprendere a partire dal lavoro e dalla vita, tra compiti scolastici astratti e formalizzati e compiti sociali concreti ed autentici, tra cultura in senso sia classico, sia antropologico e qualità della vita personale che faccia sintesi di tutte le esperienze e i pensieri di ciascuno». 

Ecco: il testo è un manifesto dell’efficacia del metodo dell’alternanza. E lo è a tal punto da viverla anche nell’organizzazione dei capitoli, nei quali troviamo insieme alla trattazione dottrinale il racconto di esperienze pratiche e la ricerca delle radici storiche. Così come nella realtà formativa, anche in quella editoriale il metodo pare funzionare, poiché il volume è particolarmente utile, non un veicolo di autoincensante nozionismo accademico.