Nelle prossime settimane avrò l’opportunità di leggere con una classe di liceo alcune poesie di Giuseppe Ungaretti. Il compito mi affascina, perché trovo i suoi testi potenti, soprattutto per l’incisività delle parole, essenziali, profonde. Pensando alla difficoltà che non pochi miei studenti troveranno nel comprendere e – mi auguro – nell’apprezzare il nostro autore, mi domando: “Che senso ha far leggere testi così oggi, nel 2013? Qual è il contributo disciplinare specifico che una materia come l’italiano può apportare?”. Ho inoltre ben presente i numerosi ostacoli che i ragazzi incontrano nell’apprendimento della lingua italiana, a tutti i livelli; perciò, ampliando la questione, non posso non chiedermi: “Perché è importante saper parlare e scrivere bene?”. Non sarà forse un vano puntiglio da insegnante?
A questo proposito mi è tornata alla mente la lezione magistrale che dà George Orwell a coronamento del suo capolavoro, il romanzo 1984 (pubblicato nel 1949). L’autore postpone alla narrazione una breve appendice, dal titolo I princìpi della neolingua, nella quale riflette sulla lingua che egli immagina sia usata dai suoi personaggi. “Fine della neolingua non era solo quello di fornire (…) un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”. Le parole sono pertanto uno strumento che plasma il nostro modo di pensare, cioè la capacità di accorgerci del mondo e di emettere giudizi. Orwell avverte subito dell’estrema importanza di una conoscenza piena della lingua: “Tanto per fare un esempio, in neolingua esisteva ancora la parola libero, ma era lecito impiegarla solo in affermazioni del tipo “Questo cane è libero da pulci”; o “Questo campo è libero da erbacce”. Non poteva invece essere usata nell’antico significato di “politicamente libero” o “intellettualmente libero”, dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più neanche come concetto e mancava pertanto una parola che la definisse”. Mi interessa ora delineare quale legame riconosce Orwell tra la lingua e il pensiero.
La nuova lingua si articola in tre sottogruppi, rispettivamente il lessico A, B e C. Del lessico C basti dire che “costituiva una specie di supplemento ed era formato quasi per intero da termini scientifici e tecnici”. Quanto invece ai lessici A e B, essi sono complementari e perseguono il medesimo fine con mezzi opposti. Il lessico A comprende le parole utili alla vita di tutti i giorni, conosciute e assai ridotte di numero; sono i termini necessari per indicare i soli oggetti materiali e le azioni fisiche (come correre, cane, colpire, albero, zucchero, casa, campo). Questa parole “erano state private di ogni ambiguità e di ogni sfumatura di senso. (…) Sarebbe stato del tutto impossibile usare il lessico A a fini letterari o politici o per disquisizioni a carattere filosofico”.
Tali parole presentano una grammatica estremamente regolare, con un solo tipo di desinenza e rare eccezioni, e una pronuncia facile (“Una parola difficile a pronunciarsi o che poteva facilmente prestarsi a essere recepita dall’orecchio in maniera imprecisa, era considerata per ciò stesso una parola cattiva: per questioni di eufonia, quindi, si inserivano alcune lettere in questa o quella parola, oppure si preferiva conservare la forma arcaica”).
Il lessico B è invece formato da “parole costruite appositamente per scopi politici; da parole, cioè, che non solo avevano sempre e comunque una implicazione politica, ma tendevano a imporre a chi le usava l’atteggiamento mentale che si desiderava. (…) Le parole del lessico B erano una specie di stenografia verbale che comprimeva in poche sillabe tutta una serie di significati, al tempo stesso più precisa ed efficace di qualsiasi linguaggio ordinario”. Il lessico A è sommamente analitico, il B è estremamente sintetico. La costituzione di quest’ultimo lessico porta a una conseguenza paradossale: “In numero necessariamente esiguo, queste parole avevano ampliato sempre più la gamma dei loro significati, fino ad assorbire gruppi interi di parole le quali, visto che potevano essere rese in maniera sufficiente da un solo termine che le comprendeva tutte, potevano essere ora cancellate e dimenticate”. E quali sono queste parole? Onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scienza, religione – niente di meno che queste! In tale processo “ogni riduzione era considerata un successo perché, più si riducevano le possibilità di scelta, minori erano le tentazioni di mettersi a pensare. La speranza era di riuscire infine a far fluire il discorso articolato direttamente dalla laringe, senza alcuna implicazione dei centri cerebrali superiori”.
Di entrambi i lessici, Orwell precisa che essi “non erano costruiti in omaggio ad alcun principio etimologico”. L’etimologia è la storia di una parola, che porta con sé un’origine, uno sviluppo e un significato presente; è la scoperta che la superficie ha una sua profondità, come un pozzo che contiene acqua fresca. Come quando ci viene spiegato che “compagno” significa letteralmente “chi mangia lo stesso pane” (da cum e panis); o che “virtù” non è un concetto etereo ma deriva da vir, l’uomo forte, e che perciò indica innanzitutto un atteggiamento combattivo e incrollabile. Sono tutti elementi che, poco alla volta, spalancano finestre sul mondo. Al contrario la lingua orwelliana include parole senza storia, che non veicolano altro se non la loro accezione momentanea.
La conclusione grottesca alla quale si arriva è che, disponendo di una siffatta neolingua, è impossibile tradurre in essa pressoché qualsiasi testo di un’epoca precedente. Sarebbe ad esempio risultato semplicemente incomprensibile il celebre passo delle Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, che recita: “Noi riteniamo che queste verità siano di per se stesse evidenti, che tutti gli uomini siano stati creati uguali e che il Creatore li abbia forniti di determinati Diritti inalienabili: fra questi, la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità (…)”.
Commenta Orwell: “Sarebbe stato impossibile tradurre tutto ciò in neolingua conservando allo stesso tempo il senso dell’originale. Se si provasse a farlo, con ogni probabilità l’intero passo sarebbe fagocitato dalla parola psicocrimine. L’unica traduzione possibile sarebbe stata di natura ideologica: le parole di Jefferson, pertanto, verrebbero trasformate in un panegirico del governo assoluto”. La neolingua è così il perfetto strumento di dominio delle coscienze che il potere centrale (il Grande Fratello) ha costruito; non è infatti possibile formulare alcuna affermazione che si opponga al suo governo, poiché essa “non avrebbe potuto ricevere il supporto di una qualsiasi argomentazione, perché mancavano le parole per sostenerla”.
Non so che cosa suscitano in chi legge queste osservazioni, ma a me fanno venire la pelle d’oca, e allo stesso tempo mi infondono sicurezza. Da un lato, infatti, Orwell fotografa la condizione di noi oggi – giovani e adulti, dentro e fuori dalla scuola; un insegnante potrebbe documentare con mille esempi (di grammatica, lessico, ortografia, letteratura, interrogazioni…) quel che il nostro scrittore ha visto lucidamente sessant’anni fa – e, per questo, è un genio. Ma anche chi non lavora nel campo dell’insegnamento sa bene quanto sia facile non ragionare e non far ragionare, usando le parole a caso oppure in maniera ideologica: da certa politica al posto di lavoro, alle situazioni di vita privata. E questa considerazione mi dà sicurezza, ovvero la certezza che custodire le parole e comunicarle – proprio nella nostra epoca – non è tempo sprecato, trastullo improduttivo per nostalgici del passato; al contrario: c’è bisogno, a tutti i livelli della società, di persone che sappiano dare il nome alle cose, e farlo intendere ad altri, cioè insegnarlo, esattamente per poter prendere davvero contatto con la realtà.
Una conferma autorevole di quanto affermato proviene da un discorso di Benedetto XVI, pronunciato il 6 ottobre 2008: “Umanamente parlando, la parola, la nostra parola umana, è quasi un niente nella realtà, un alito. Appena pronunciata, scompare. Sembra essere niente. Ma già la parola umana ha una forza incredibile. Sono le parole che creano poi la storia, sono le parole che danno forma ai pensieri, i pensieri dai quali viene la parola. È la parola che forma la storia, la realtà”. È qui racchiusa semplicemente la dinamica della nostra interazione con la realtà: dai pensieri discendono parole, le quali fortificano i pensieri (è il concetto greco di logos); e grazie alla loro unione è possibile intervenire nella storia, compiere un’azione operosa dentro la realtà.
Ben vengano allora le poesie di Ungaretti: forse i miei studenti non ne comprenderanno il valore poetico e umano, forse addirittura si annoieranno, ma in ogni caso la posta in gioco è troppo preziosa per non tentare l’impresa.