La crisi etica ed ideale che segna l’Occidente nel corso degli ultimi 40 anni non è casuale. È, come ho tentato di mostrare nel mio volume Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo (Itaca, 2005), il frutto della decomposizione del modello umanistico che ha guidato la ricostruzione in Europa e in America dopo la seconda guerra mondiale. Una tradizione classico-cristiano-moderna che tendeva a unire questi tre momenti e non a separarli; tesa a valorizzare il meglio della tradizione umanistica europea contro la barbarie dei totalitarismi sperimentati nella tragedia bellica. 



Questo modello comincia a decomporsi negli anni 60, quando una sorta di neopositivismo scientista s’impone nella cultura europea e anche in quella italiana. Il risultato è la dissociazione del rapporto tra umanesimo classico-cristiano ed illuminismo. Dopo la guerra anche la cultura laica sapeva che il contributo cristiano risultava fondamentale per il rispetto della persona, dei diritti, della libertà. Questa consapevolezza aveva portato all’incontro tra cultura laica e cultura religiosa. Un rapporto destinato ad incrinarsi con l’emergere di un “nuovo” illuminismo positivista, agli inizi degli anni 60, e con il movimento della contestazione, poi, durante gli anni 70. Del ’68 si possono dare molte interpretazioni anche se in genere ci si ferma agli aspetti più esteriori della contestazione giovanile e del maggio parigino. In realtà il ’68 è stato un grande movimento, culturale ed anticulturale ad un tempo. 



Due filosofi francesi, Luc Ferry e Alain Renaut, in uno studio dal titolo Il 68 pensiero. Saggio sull’antiumanesimo contemporaneo (Rizzoli, 1987), hanno colto molto bene la vis critica del ’68, la sua intenzione di distruggere e decostruire la concezione umanistica europea. Tutte le principali correnti culturali che hanno mobilitato il Sessantotto intellettuale convergono nella distruzione, raffinata e apocalittica ad un tempo, della grande tradizione umanistica, dai Greci, passando per il cristianesimo e la modernità. 

La gioiosa macchina da guerra del 68 pensiero univa autori tra di loro incomponibili, i “maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche, Freud, Heidegger. Maestri del sospetto perché il loro pensiero, radicalizzando il dubbio cartesiano che si limitava a dissolvere le certezze della conoscenza riguardo al mondo esterno, coinvolgeva ora lo stesso cogito che dubita. Il pensiero moderno, con Cartesio,  non era sufficientemente radicale. Esso non dubita della coscienza che dubita, non dubita del soggetto che sta dubitando. Il nuovo dubbio degli intellettuali  contestatori, più radicale di quello cartesiano, porta ad un depotenziamento della soggettività, ad uno spossessamento del soggetto che viene detronizzato della sua centralità, ricondotto a risultato di forze e di potenze che lo precedono e lo determinano. 



La pretesa dell’Europa che l’uomo sia il fondamento della conoscenza e della libertà viene criticata, dalle ideologie degli anni 70, come una pretesa imperialista. Non esiste il soggetto, esistono le forze (le leggi economiche, le strutture,  l’eros, la volontà di potenza , gli istinti primordiali della natura) le quali sono i veri moventi. Noi siamo enti passivi mossi da altro, da delle forze oscure. L’idea di uomo come soggetto diviene una creazione cristiano-moderna, un prodotto culturale ed ideologico del primato europeo nel mondo che deve essere criticato ed abbandonato. 

In tal modo le varie componenti del  68 pensiero si ritrovano, pur nella loro diversità, in un punto comune: la decostruzione-dissoluzione della tradizione umanistica. Rispetto alla posizione illuministica, per la quale il Medioevo rappresenta la centralità di Dio e il Moderno la centralità dell’uomo, il passo ulteriore è dato dalla negazione dell’uomo. Non è solo l’uomo che prende il posto di Dio, come vuole l’illuminismo, anch’egli va spodestato dalla sua centralità, l’uomo che porta gli attributi del  Dio perduto. Come scrive Michel Foucault, al termine de Le parole e le cose (Rizzoli 1967), «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima». Egli/esso è destinato a scomparire «come sull’orlo del mare un volto di sabbia».

La cosa interessante è che tale prospettiva, nella sua opera di radicale decostruzione, reincontrava, direttamente o indirettamente, gli autori della destra culturale europea. Riscopriva, in qualche modo, l’attualità della prospettiva delineata ne Il tramonto dell’Occidente di Osvald Spengler, un’opera scritta dopo la prima guerra mondiale nella quale il relativismo delle culture si sposava ad una lettura postumanistica, postilluministica, postcristiana. Spengler era tedesco così come tedeschi sono i “maestri del sospetto”, che stanno al centro del 68 pensiero: Marx, Nietzsche, Freud (che è austriaco), Heidegger. 

Di questi quattro autori, due, Nietzsche e Heidegger, risultano implicati, a titolo diverso, nel nazionalsocialismo. Nietzsche come antesignano, nonostante i tentativi di esonerarlo da ogni possibile responsabilità futura, da parte della Gauche, mentre Heidegger risulta direttamente coinvolto nel regime nazista. Con ciò siamo dinanzi a un singolare paradosso: la sconfitta politica della Germania nazista, è stata soppiantata dalla sua vittoria culturale. Hanno vinto gli autori che furono profeti o complici del nazismo. Il ’68 ha riattualizzato la cultura tedesca che era stata sconfitta con la seconda guerra mondiale. Nei quindici anni dopo la guerra Nietzsche ed Heidegger avevano perso l’influenza esercitata in precedenza. A partire dagli anni 60 l’intellighenzia francese, egemone in quel momento nello scenario culturale mondiale, li ripropone sotto una nuova luce, quella della critica dei valori propri della metafisica occidentale, indicandoli come alleati nella dissoluzione del mondo cristiano-borghese. 

In questa operazione si incontrano con una parte dell’intellighenzia tedesca dell’emigrazione. Lo denuncia, a suo modo, uno studio molto interessante di Allan Bloom, La chiusura della mente americana. I misfatti dell’istruzione contemporanea (Lindau 2009), in cui l’autore analizza l’influenza esercitata sulla cultura americana dagli intellettuali tedeschi fuoriusciti dalla Germania nazista. Intellettuali non nazisti che, però, subivano il fascino dell’opera di Nietzsche e di Heidegger. Ad essi va aggiunta la scuola francese degli intellettuali post-esistenzialisti degli anni 60, i Foucault, Deleuze, Derrida, i quali, come bene ha ricostruito François Cusset nel suo French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Co. All’assalto dell’America (Il Saggiatore 2012), sono divenuti negli Usa, a  partire dalla fine degli anni 60, il punto di riferimento per la decostruzione del modello delle discipline umanistiche nel contesto universitario. Un attacco frontale condotto a partire dalla sintesi tra Marx-Nietzsche-Heidegger.

La cultura della destra europea otteneva così, grazie alla Francia e al fascino esercitato dagli intellettuali francesi in America, una nuova legittimazione dopo il silenzio degli anni post-bellici.  Essa diviene un ingrediente, fondamentale, della scuola dei “maestri del sospetto” la quale, con l’eccezione di Marx, e molto meno di Freud (per il sottofondo nietzscheano del suo pensiero), è una cultura di destra, una cultura irrazionalista e vitalista che oppone l’immaginazione alla ragione: il logos, la scienza, la ratio, la cultura appaiono come forme di dominio dell’imperialismo europeo. Dietro questa critica c’è un irrazionalismo puro. L’opera di Lukács, La distruzione della ragione (Einaudi 1974), con tutti i limiti di un marxista dogmatico e stalinista, coglie bene il nesso tra le correnti di destra e le critiche alla ragione. 

Se ciò è esatto non sorprende allora la singolare “eterogenesi dei fini” per cui la cultura della contestazione, come distruzione della ragione, porta alla vittoria del filone di destra della cultura europea del Novecento. L’“immaginazione al potere” post-sessantottina, nella sua battaglia contro il logos, il soggetto, la tradizione umanistica, porta, come esito, ad una cultura di destra legittimata a sinistra. Si tratta di una dissimulazione che ha confuso, intorbidato, mescolato le carte. Chi poteva, infatti, operare questa “purificazione”? Non la Germania sconfitta, ma la Francia, potenza uscita, almeno apparentemente, vittoriosa dalla guerra. I tedeschi non potevano farlo, ma i francesi vincitori avevano le carte in regola. Così Nietzsche, l’autore per eccellenza della destra radicale tedesca, diventa l’autore di culto il cui successo perviene sino a noi. La sinistra intellettuale parigina lo ha ripulito, separando la sua opera dal nazismo, negando che Nietzsche avesse mai avuto l’intenzione di pubblicare un’opera dal titolo La volontà di potenza, uscita postuma solo grazie al lavoro redazionale della sorella Elizabeth Forster. 

Nietzsche viene celebrato, nel 68 pensiero, come cantore di Dioniso, della volontà di vita priva di ogni logos, del vitalismo puro, del libertinismo sovvertitore di ogni norma. È il Nietzsche dionisiaco de Il soggetto e la maschera (Bompiani 1974) di Gianni Vattimo. Vattimo celebra Nietzsche come il liberatore dalle convenzioni, un Nietzsche di sinistra, salvo ricordare, nell’ultimo capitolo del suo volume, che Nietzsche è anche l’autore dei frammenti della Volontà di potenza, un epilogo non felice ma, secondo il suo interprete, non essenziale per comprendere il pensatore tedesco. Insomma il Nietzsche che apre al nazismo non è rilevante. Ciò che importa è il Nietzsche libertino, gaudente, gioioso, pronto ad essere utilizzato per distruggere la vecchia morale giudaico-cristiana, immaginata come repressiva e reazionaria.

Qual è il punto d’incontro, occorre chiedersi, tra Marx e Nietzsche, tra la sinistra radicale e la destra radicale, che il pensiero francese celebra? Nel superamento della tradizione umanistico-cristiana. Per il Marx delle Tesi su Feuerbach non si può più parlare più di un uomo eterno. Il materialismo storico asserisce che non vi è più un uomo ideale che permane identico nel tempo, l’uomo è il prodotto della situazione storico-sociale ed economica. Marx viene, così, inserito nell’orizzonte dell’antiumanesimo. La Francia intellettuale contribuisce a questo  miscelando i contrari, come già era accaduto nel surrealismo di André Breton con la coppia Marx-Nietzsche, e aggiungendo, nella lotta contro l’umanesimo, il contributo dello strutturalismo. Abbiamo così, da un lato, la scuola dei “maestri del sospetto”, e dall’altro, la scuola strutturalista.

Quest’ultima, che all’inizio degli anni 60 prende il posto dell’esistenzialismo, afferma che non esiste il soggetto umano, libero, responsabile, razionale. Esistono soltanto le strutture: economiche, antropologiche, sociali, psicologiche. Lo strutturalismo nega la soggettività, nega la categoria di avvenimento: non ci sono eventi, singolari ed irripetibili, ma solo la durata di strutture impersonali che guidano la storia. Il vero soggetto è la struttura. Come afferma Gilles Deleuze, uno dei maestri dello strutturalismo francese, in un suo saggio del 1973: «lo strutturalismo non è separabile da un nuovo materialismo, da un nuovo ateismo, da un nuovo antiumanesimo». Lo strutturalismo diventa nella Francia degli anni 70 la koinè, il metodo che permea tutte le discipline: l’antropologia con Claude Lévi-Strauss, la psicoanalisi con Jacques Lacan, la linguistica con Roman Jakobson, l’analisi filosofica e sociologica con Michel Foucault, il marxismo con Luis Althusser,  la narrativa con Roland Barthes. 

Una delle conseguenze, tra le più significative, di questa tendenza è la scomparsa della dimensione narrativa. La scrittura non può più esprimere gli attributi interiori del soggetto, ma solo la sua assenza. Nel venir meno della dimensione esistenziale viene meno anche, come genere narrativo, il romanzo,di cui si teorizza la fine. Il romanzo, la grande invenzione della modernità da Cervantes in avanti, che ruota intorno all’io e al soggetto, scompare: la narrazione è la narrazione di una vita, d’una interiorità, non è possibile descrivere un uomo senza interiorità. La fine del romanzo significa anche la fine della storia, della storia narrata, determinata da personaggi reali, da eventi unici. Ciò che scompare è l’opera come manifestazione di una “esistenza”. Nei  manuali di letteratura, così come in quelli di storia, scritti con un metodo strutturalista scompaiono gli autori. Nel campo letterario restano le opere, le quali assumono una assolutezza autoreferenziale che ruota attorno al paradigma linguistico: è la struttura del linguaggio che conta, la psicologia e l’esistenza dell’autore non hanno alcun riverbero.

Tutto ciò ha una ricaduta, evidente, sul piano pedagogico. Lo strutturalismo, al pari del decostruzionismo, abolendo la dimensione del “soggetto” crea una distanza infinita tra il testo ed il lettore. Lo studente non ha più la possibilità di incontrare, nell’oggetto studiato, un fattore di corrispondenza con la sua dimensione esistenziale. L’oggetto dello studio, scarnificato e spersonalizzato, giace dinnanzi a lui come lo scheletro di un animale fossile, museizzato, isolato ed astratto sia dalla vita che dalla storia. Come ha scritto recentemente Tzvetan Todorov, uno dei protagonisti della stagione strutturalista in Francia, tutto ciò porta a La letteratura in pericolo (Garzanti 2008). Per l’autore l’egemonia del metodo strutturalista nei licei e nelle facoltà umanistiche in Francia è la causa prima della disaffezione dei giovani dalla letteratura. «In altri termini, l’opera letteraria viene ormai rappresentata come un oggetto linguistico chiuso, autosufficiente, assoluto. Nel 2006 queste generalizzazioni abusive vengono sempre presentate nelle università francesi come postulati intoccabili. Senza stupore alcuno, i liceali apprendono il dogma secondo cui la letteratura non ha alcun rapporto con il resto del mondo e studiano soltanto le relazioni che intercorrono tra gli elementi dell’opera. E non v’è alcun dubbio che ciò contribuisca al crescente disinteresse che gli allievi manifestano riguardo all’indirizzo letterario». 

La conclusione è evidente. La crisi della scuola oggi non è il mero esito, come da molti si lamenta, della scolarizzazione di massa. Essa ha certamente una causa materiale: lo scollamento grave tra scuola e mondo del lavoro. Oltre a ciò, però, vi è una causa ideale: la decostruzione della cultura umanistica che dovrebbe essere l’oggetto della formazione e dell’apprendimento. La scuola oggi non è il luogo di una possibile rinascita ideale, è un momento rilevante del processo di crisi che caratterizza il nostro presente.


Il presente testo è la prolusione tenuta dall’autore nell’ambito del convegno DiSAL “Dirigenti scolastici risorsa decisiva per il futuro delle scuole”, Tivoli Terme (Roma) 21-23 marzo 2013

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