1. Università e matricole inadeguate: corsi di recupero o mea culpa, mea maxima culpa? – Una lettura delle puntate e dei dati dell’inchiesta apparsa di recente su queste pagine, dovrebbe stimolare qualche riflessione critica, oltre a reazioni emotive e puntigliose, peraltro del tutto legittime, ma che non spostano di un centimetro il nocciolo del problema: l’insuccesso delle politiche educative nel garantire lo sviluppo di un’istruzione di massa e allo stesso tempo di qualità, messe in atto dopo il ’68.



Il settore universitario, in particolare, è tutt’ora caratterizzato da uno scarso, o mancato sviluppo, rispetto alla maggioranza dei paesi Ocse, che ci vede carenti in tutti i principali indicatori di capitale umano. Come evidenzia l’inchiesta, questi limiti vanno in parte ricercati nella scarsa qualità delle matricole in entrata. Il tardivo riconoscimento di questo fatto ha costituito e costituirà, per il futuro, un errore strategico per il paese e per l’università. Quest’ultima, infatti, anziché stimolare le strutture scolastiche del proprio territorio ad eliminare le carenze cognitive che si accumulano nell’arco di 13 anni, si ostina ad organizzare corsi di recupero per le matricole (implicito riconoscimento delle loro carenze), come se bastassero poche settimane per colmare vuoti cognitivi che, magari, hanno origine nelle medie inferiori. 



Tali misure e atteggiamenti appaiono, oltre che miopi, anche molto ipocriti: infatti, da dove si pensa che siano usciti gran parte degli insegnanti di scuola primaria e secondaria che preparano così male le matricole, se non dall’università italiana medesima? Laureatisi in un ambiente sempre meno selettivo a causa di meccanismi di finanziamento statali che prevedono incentivi monetari per il numero di crediti acquisti dagli studenti (sic!). Altro errore fondamentale in cui rischia di incorrere l’università è poi quello dell’introduzione di procedure di controllo di qualità dei processi, mentre il nocciolo del problema è il livello di apprendimento nelle discipline di base (comuni a più indirizzi) e specialistiche. Su temi come questi è auspicabile che si apra un dibattito franco, aperto e libero dai partiti, dai potentati accademici e da tutti i lacci e laccioli burocratici-amministrativi con cui le ultime riforme e regolamenti hanno afflitto la scuola e l’università. 



2. Il cuore degli studenti è grande: riempiamolo con la ricerca dell’eccellenza e dell’ oggettività – Una seconda riflessione è la seguente. I successi di certi paesi dell’estremo oriente in ambito educativo, non possono essere scissi dai fattori etico-culturali che pervadono quelle società: Haec Ornamenta Mea, la famosa frase di Cornelia che aveva investito tutto sull’istruzione dei figli, non pare distante dallo spirito che pervade le madri dei giovani orientali, descritto in un articolo di gran successo di alcuni mesi fa (dove di parlava dell’inflessibile e severissima Amy Chua: è il dibattito sulle cosiddette “madri tigre”). 

Questo significa che uno dei fattori su cui lavorare è proprio la ricostruzione del prestigio della scuola e dell’istruzione, a partire dall’importanza attribuita a queste dalle famiglie. Le famiglie devono capire che il successo scolastico non va visto tanto come mera acquisizione di un titolo da ottenere a tutti i costi (cheating compreso, spesso con la complicità delle autorità scolastiche, pubbliche e private), ma come raggiungimento di livelli di eccellenza oggettivi. Coloro che ancora oggi sono contrari a forme oggettive di verifica degli apprendimenti lavorano di fatto contro la ricostruzione di questo clima etico-culturale, che può invece costituire la base per un miglioramento della qualità dei nostri studenti. 

Queste persone, le cui opinioni vanno ovviamente rispettate, nel caso si tratti di operatori scolastici, devono essere stimolate a dimostrare, dati alla mano, che i metodi di verifica oggettivi producono graduatorie di valutazione significativamente diverse dalle loro. In assenza di una tale dimostrazione i loro attacchi alla cultura della valutazione oggettiva attraverso test devono essere considerati non razionali. I casi di concreta e forte discrepanza tra valutazioni interne e valutazioni oggettive devono invece essere presi in seria considerazione dagli organi nazionali di valutazione, e adeguatamente studiati. Gli organi di valutazione nazionali, per contro, devono creare banche di item facilmente accessibili, selezionati con metodi adeguati: item che non rispettano l’adattamento al modello di Rasch devono essere esclusi, indipendentemente dalla autorevolezza di chi li abbia proposti (cfr: Quante altezze ha un triangolo? Quanto spende una famiglia se in pizzeria consuma 4 pizze, una birra e tre Coca-Cola? Sulla questione dell’oggettività si veda: “La misura nell’ambito delle scienze sociali”, Multiversoweb.it).

3. Eredità del ’68: lo Spritz-Aperol? − Sempre prendendo stimolo dall’inchiesta e dai suoi dati, ecco di seguito un’altra considerazione, purtroppo preoccupante. Dai grafici riportati nella nostra inchiresta, relativi al tasso di accesso ai vari gradi di istruzione, si evidenzia un forte rallentamento nelle iscrizioni alla scuola secondaria (inferiore e superiore) che, a partire dal 1978 perdura per buona parte degli anni 80. Tale fenomeno è quasi totalmente da imputare ad un mancato passaggio alla scuola media superiore e ai forti tassi di dropout che hanno caratterizzato quel periodo storico, tanto che uno dei temi clou della ricerca educativa degli anni 90 fu proprio quello dei dropout. 

Il mancato accesso alla scuola secondaria superiore in quel periodo, nonostante le conquiste storiche del ’68, è una delle prime cause (ovvie) del forte deficit di laureati che ha poi stimolato le riforme della scuola e dell’università nel tentativo di raggiungere livelli “moderni” di qualificazione della forza lavoro che, come visto nella prima parte dell’inchiesta, sono ancora lontani. Dal punto di vista storico, ma anche etico-politico, ci pare necessario cercare di approfondire le ragioni di quella flessione, poiché dietro quella linea statistica “poco mossa” nel grafico citato, stanno probabilmente fenomeni importanti sui quali è necessario fare luce per evitare errori futuri e capire le responsabilità di classi dirigenti che sono ancora al potere. 

Il fenomeno ha inizio appunto nel 1978, e permane fino verso la metà degli anni 80: comprende quindi le generazioni che raggiungono la licenza media inferiore tra il 1975 ed il 1985; quindi nati e cresciuti, grosso modo, tra il 1960 ed il 1975, ovvero nel periodo “clou” di una delle due rivoluzioni che Pasolini indica come uniche vere rivoluzioni del popolo italiano: la Resistenza ed il ’68. La domanda è: come è possibile che giovani generazioni nate in quel periodo, anche da genitori che avevano certamente “fatto il ’68”, abbiano avuto una propensione così bassa all’iscrizione alla scuola media superiore e, quindi, abbiano dato alla scuola ed alla ricerca del sapere un valore così scarso? 

Una possibile risposta si può trovare proprio in Pasolini (La Droga: una vera tragedia italiana in Corriere della Sera del 24 luglio 1975): purtroppo non è piacevole, e il quadro delle ipotesi scientifiche psico-biologiche che si apre è devastante per la scuola italiana e per il nostro paese più in generale. Se qualcuno avesse il dubbio che la denuncia di Pasolini sia frutto della sua particolare esperienza di vita e quindi abbia una limitata validità statistica e generale, si consideri che dagli studi internazionali Health Behaviour in school-aged children (Hbsc), condotti con regolarità in un gran numero di paesi europei, e non europei, aderenti alla Who (World Health Organization) emerge che l’Italia (nel 2000) sta ai primi posti per il consumo di alcol tra i giovani dagli 11 ai 15 anni (il target di età della ricerca in oggetto). La figura tratta dal rapporto Hbsc 200 è impressionante: a 15 anni il 50% dei giovani beve almeno una volta alla settimana, e le percentuali a 13 e 11 anni sono veramente elevate rispetto agli altri paesi dell’indagine (si può scaricare la sola figura dal seguente link).

Come bene spiega il rapporto “…La frequenza e l’intensità del consumo di alcol risultano indipendenti dall’intelligenza degli adolescenti o dalle loro capacità accademiche. Tuttavia, diversi studi mostrano una chiara relazione tra consumo di alcol e scarso rendimento a scuola (Hawkins et al., 1992). Uno studio svolto in Germania da parte di di Nordlohne (1992) ha dimostrato che sia il bere che il fumare tra gli adolescenti possono essere previsti sulla base dello scarso rendimento a scuola. In questo contesto, l’alcool servirebbe principalmente per compensare lo stress emotivo relativo a queste esperienze di scarse prestazioni. A ciò va sommato ovviamente l’effetto negativo derivante dalla delusione delle aspettative dei genitori e dai conflitti derivanti. Gli studi, dunque, evidenziano che esiste una relazione tra rendimento scolastico e il consumo di alcol: il bere può essere visto sia come il risultato che la causa degli insuccessi scolastici. 

Carenze scolastiche, atteggiamenti negativi nei confronti della scuola sono spesso evidenziati sia come fattore scatenante che conseguenza dell’abuso di alcol. Ciò, da un lato, sottolinea le forti responsabilità della scuola, nella misura in cui questa risulti un ambiente scarsamente stimolante ed incapace di favorire il successo cognitivo (effettivo e non meramente certificato dai voti assegnati), e dall’altro le responsabilità che la società e la famiglia hanno nei confronti di possibili conseguenze negative sui rendimenti scolastici derivanti da lassismo nell’ambito dell’uso di sostanze alcoliche. Figuriamoci di quelle di altro tipo! 

Purtroppo i bassi rendimenti scolastici certificati dalle indagini internazionali e gli elevati livelli di consumo di alcol che caratterizzano i nostri adolescenti, secondo le ricerche promosse dalla Who, evidenziano come il nostro paese sia ormai in un abisso dal quale solo una rivoluzione profonda potrà risollevarlo. Tali evidenze ed ipotesi rafforzano inoltre la gravità delle forti correlazioni tra corruzione e livelli di apprendimento, già evidenziate in altro intervento su queste pagine).

4. Quali prospettive per la scuola privata: La valutazione è solo una scusa per l’introduzione dei voucher o ci si crede veramente? − Una delle puntate dell’inchiesta ha riguardato la questione delle risorse umane in rapporto agli studenti. L’inchiesta ha preso in esame il rapporto studenti/docenti, che risulta tra i più bassi al mondo. Pare che come numero di insegnanti (pubblici+privati), sulla carta, il nostro paese non si possa lamentare, almeno per la scuola primaria (soprattutto) e secondaria (un po’ meno). Le risorse sono così elevate che un aumento del numero di studenti del 10% ed una riduzione analoga nel numero di docenti porterebbe tale rapporto, ad esempio nella scuola primaria, dagli attuali 10 studenti per docente a 12.2, comunque inferiore al livello mediano Ocse di 13.3. 

Ora, l’esempio non è a caso in quanto ipotizzando che la scuola privata raccolga circa il 10% degli studenti e detenga circa il 10% degli insegnanti, una chiusura di tutte le scuole  private non comporterebbe una “irreparabile congestione” di quelle pubbliche, come paventato da alcuni autorevoli rappresentati della scuola privata. La scuola pubblica continuerebbe ad effettuare il suo lavoro anziché con un carico di 10, con uno di 12.2, che comunque è ancora inferiore alla mediana dei paesi Ocse pari a 13.3. Inoltre le famiglie risparmierebbero un bel po’ di rette, in questo periodo di crisi… 

Dunque, anziché cercare di intimorire i futuri governi con lo spettro di improbabili cataclismi demografici, si raccomanda alle scuole private di cominciare a lavorare seriamente sulla qualità, se vogliono sopravvivere. La valutazione e la qualità non possono essere sbandierate da esponenti della scuola privata solo perché potrebbero giustificare l’introduzione dei voucher. Il miglioramento degli apprendimenti e la crescita delle eccellenze devono essere i primi elementi sui quali le scuole private devono investire, in primo luogo in attività di ricerca tese a dimostrare la loro maggiore efficacia in rapporto alle scuole pubbliche, o meglio ancora, l’efficacia di azioni di miglioramento dello status quo (in particolare del loro status quo), così da poterne proporre l’applicazione anche alle scuole pubbliche. 

La mancata comprensione di questo aspetto rischia di riportare il dibattito politico ed educativo sui soliti contrasti ideologici pubblico-privato, francamente poco razionali, al pari delle opinioni di coloro che si schierano aprioristicamente contro l’uso delle misure oggettive di apprendimento, di cui si è già discusso.