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Home » Educazione » Riforme scolastiche » SCUOLA/ Non basta essere Democratici per fare buone riforme

  • Riforme scolastiche
  • Educazione

SCUOLA/ Non basta essere Democratici per fare buone riforme

Vittorio Campione
Pubblicato 8 Marzo 2013
scuola_studenti_abbraccioR439

Immagine di archivio

È possibile un’altra scuola? È il tema di un dibattito che si tiene oggi a Milano, organizzato dal CeRiForm dell’Università Cattolica. Il punto di vista di VITTORIO CAMPIONE

La rinascita del Paese a partire dai giovani è la vera posta in gioco in questo momento ed è per questo che la trasformazione urgente del sistema educativo anche a garanzia della coesione sociale, non è un punto del programma di un possibile (?) governo, ma una condizione concreta perché qualsiasi programma abbia prospettive di efficacia.


SCUOLA/ "Latino inutile? No, ci fa conoscere noi stessi e la nostra vita"


La prima questione con cui misurarsi è la convinzione che la scuola di un tempo fosse migliore dell’attuale e che quindi la “nuova” scuola altro non dovrebbe fare che tornare al passato. Viene detto che le riforme realizzate, o anche solo proposte, hanno destabilizzato un sistema solido ed efficace e che occorre ripristinare quell’impianto. 


SCUOLA/ “Latino alle medie, un orpello ideologico dove ci vorrebbe più italiano”


È vero il contrario: la scuola di un tempo accoglieva poco, disperdeva una parte grande di quelli che accoglieva e dava a quei pochi che l’attraversavano interamente, una formazione nella quale non c’erano (o erano marginali e superficiali) le lingue, le scienze, la tecnologia, la realtà contemporanea, la cittadinanza. La scuola di oggi non è, come a volte si dice, la caricatura della scuola di ieri imbruttita dalla perdita di qualità e dalla caduta di attenzione ed impegno da parte degli allievi. Al contrario, è proprio l’ostinazione, così diffusa, a tentare di replicare quel modello che allontana la possibilità di far avere alla scuola un ruolo nella costruzione della cittadinanza sociale.


SCUOLA/ 61 bambini di cui 10 italiani, il "dramma" (nazionale) da non perdere per ridisegnare l'organico


Oggi si fa strada il convincimento che il mondo della scuola (dirigenti e insegnanti, ma anche in parte famiglie e ragazzi) sia diffidente se non addirittura ostile rispetto a ipotesi e promesse di riforma. Al netto di qualche pregiudizio di tipo ideologico, è certamente vero che nelle scuole tale disincanto verso “la riforma” è largamente presente. Non bisogna però confondere questo atteggiamento con minimalismo corporativo e rifiuto dell’innovazione. Al contrario, gli insegnanti (e l’intero mondo della scuola) possono essere un grande fattore di cambiamento a condizione di non ridurli a una massa di pressione per chiedere “l’esaurimento delle graduatorie dei precari” o altre misure autoreferenziali. 

Vanno invece coinvolti in un processo che parta  dalla riflessione sull’oggetto effettivo della loro diffidenza aprendo finalmente e in modo sistematico e autorevole una riflessione sul nesso fra i cambiamenti strutturali nella società e nel lavoro e la modifica dei processi di insegnamento/apprendimento che ne deve necessariamente conseguire. Quanti operano nel mondo della scuola sono sempre meno disponibili a discutere di modifiche agli ordinamenti o di architettura istituzionale (specie se intravedono qualche connessione con interventi sulla spesa) ma sono stati i primi a rendersi conto, a partire dalla propria esperienza, del contraccolpo sulla scuola che i cambiamenti sempre più radicali nella società finivano con il provocare. È allo smarrimento che fa seguito a questa consapevolezza che occorre dare risposte.

Per realizzare una scuola che abbia l’equità come emblema e la garanzia del diritto all’istruzione per tutti come principio non negoziabile, i pilastri di un possibile rinnovamento sono qualità, eguaglianza ed efficacia, mentre l’autonomia è il cantiere per garantirne la costruzione. Garantirli, però, comporta un’attenzione specifica e in certa misura preliminare alla creazione di alcune condizioni di contesto: a) la corretta assegnazione delle competenze istituzionali in attuazione del Titolo V e la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni per contrastare il centralismo e dare alle comunità (delle scuole e del territorio) il governo del sistema educativo; b) la formazione di reti (di scuole e inter-istituzionali) cui trasferire compiti relativi sia alla programmazione territoriale sia alla gestione del servizio di istruzione in tutti i suoi aspetti (passo preliminare ma indispensabile per muovere in direzione della personalizzazione e differenziazione dei percorsi educativi); c) l’integrazione fra i diversi sistemi ed azioni educative a vario titolo esistenti (istruzione, formazione e istruzione professionale, apprendistato, educazione permanente, formazione e aggiornamento a cura delle imprese, degli enti o di altri soggetti pubblici e privati, istruzione superiore) per realizzare  un nuovo sistema di lifelong learning che è il compimento indispensabile della radicale modifica dell’organizzazione del lavoro scolastico e dei contenuti e metodi di insegnamento/apprendimento. 

Nel momento in cui il giovane che esce dal percorso formativo non è più il contenitore di un sapere predefinito, differente dagli altri giovani come lui solo per le (eventuali) capacità di gestire autonomamente quanto ha imparato ed è invece il risultato di un processo personalizzato di costruzione di competenze che in quanto tale ha bisogno di essere proseguito e sviluppato, l’educazione lungo tutto l’arco della vita diventa la prosecuzione di questo lavoro di costruzione e può perdere quell’aura di corso di recupero posticipato che ha finito con avere. 

Riprogrammare il sistema, riformarlo in modo da farlo essere in grado di corrispondere ai processi di trasformazione del lavoro e di permettere ai giovani di guardare al futuro, significa anzitutto comprendere che la conoscenza e la capacità creativa che abbiamo posto come finalità non si trasmettono mediante un insegnamento più o meno efficace, più o meno moderno, più o meno sostenuto dai migliori supporti: si acquisiscono costruendo, con la guida di maestri esperti, capaci di motivare ogni ragazzo, il proprio percorso di apprendimento.

Il tema della cittadinanza quindi, del suo ruolo essenziale rispetto all’inclusione e del suo rapporto con i processi di apprendimento non è, né può essere, declinato come ennesima aggiunta ai curricula più o meno rinnovati dalle indicazioni che si succedono con il passar dei governi. Va inteso come articolazione della valorizzazione della persona in rapporto con gli altri attraverso l’acquisizione di molteplici abilità, competenze e conoscenze. 

Un tempo era chiaro che studiare equivaleva a trovar lavoro, a migliorare, o conservare, la propria collocazione sociale, a costruire le basi per il proprio futuro personale e professionale. La domanda sociale, quindi, era «più scuola e più scuola per tutti». Oggi è sempre più chiaro che non basta aver completato un percorso per avere il passaporto per una collocazione sociale prestigiosa o anche solo consolidata. La domanda sociale quindi è più articolata e più esigente: riguarda tipologia e qualità dei percorsi, metodologie adottate per compierli, relazione di questi con la realtà, nazionale e internazionale.

Per queste ragioni non solo abbiamo bisogno della scuola, ma abbiamo bisogno che la scuola cambi con il contributo fondamentale dei suoi protagonisti. E dobbiamo agire sapendo che non c’è più molto tempo, in particolare in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando.

Chi si oppone al cambiamento, oggi più che mai, si rende corresponsabile del perdurare delle condizioni di svantaggio per le fasce più deboli della nostra società. Sorprende che spesso questi conservatori  pretendano di definirsi democratici e, fino a qualche tempo fa, addirittura “di sinistra”.


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