Troppo interessanti i contributi di Diego Sempio e Gianni Zen, apparsi nei giorni scorsi su ilsussidiario.net, per resistere alla tentazione di offrire un ulteriore – benché più modesto – apporto al dibattito.
I dati nazionali relativi alle iscrizioni alle scuole superiori per il prossimo anno scolastico mostrano solo piccoli scostamenti rispetto al passato; insomma, niente rivoluzione copernicana neanche stavolta negli orientamenti scolastici dei nostri ragazzi, nonostante la massiccia campagna informativa a favore dell’istruzione tecnico-professionale messa in campo in questi ultimi anni dal Miur.
Nel dettaglio, le iscrizioni alle prime classi della scuola secondaria di II grado, svolte per la prima volta attraverso la procedura online, sono state 515.807. Nel confronto con l’anno precedente (2012/2013) si osserva addirittura un aumento delle iscrizioni nei licei (+1,7%), una crescita seppur leggera degli istituti tecnici (+0,4%) e nientemeno che un calo negli istituti professionali (-2%). Insomma, l’Italia resta il Paese al mondo con il più alto tasso di giovani che si iscrivono ai licei.
E questo nonostante molti settori professionali siano alla ricerca di tecnici. C’è grande richiesta, ma quelli che arrivano sono molti meno del necessario e spesso non adeguatamente formati, dato che “gli istituti tecnici e professionali hanno un numero di iscritti ancora insufficiente e una dispersione scolastica a dir poco imbarazzante soprattutto nel primo biennio”.
Eppure, scriveva ottimisticamente Flavia Amabile su La Stampa qualche tempo fa (“Per uscire dalla crisi boom di iscrizioni negli istituti tecnici”, 22 novembre 2012) fare l’ avvocato vuol dire condannarsi ad un futuro precario negli studi dei grandi professionisti. E il medico? Innanzitutto bisogna superare i test per entrare nelle università e poi dopo anni ed anni di studio e specializzazione si rischia di commettere un errore e vedersi rovinare la vita da una denuncia con risarcimento danni. Vuoi mettere, invece, il tecnico super specializzato? Le aziende ne hanno un bisogno urgente, ne mancano circa 100mila, nonostante la crisi e una disoccupazione dai ritmi incalzanti.
Persino la Commissione europea ne è convinta, e per questo ha avviato qualche mese fa il progetto Wite (Women in technical education) rivolto alle studentesse di terza media, nella consapevolezza che per promuovere lo sviluppo e la competitività del Paese va riconsiderato il «valore sociale del lavoro industriale» anche per le ragazze e promossa la formazione tecnica e scientifica, che negli ultimi anni ha perso appeal rispetto alla formazione liceale.
D’altra parte, se traduciamo le scelte delle singole famiglie degli ultimi anni in cifre nazionali otteniamo un quadro preoccupante: il 23% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora, in sostanza non fa nulla. E anche il tasso di dispersione scolastica è al 18%, molto lontano dall’obiettivo 2020 di una percentuale inferiore al 10%, come pure dalla media europea del 13,5%.
Si sperava, in definitiva, che gli italiani si illudessero sempre di meno e con spirito pragmatico cominciassero ad iscrivere i loro figli agli istituti tecnici e professionali. Invece niente da fare…
Ha ragione Zen: occorre ripensare l’orientamento. Nessun genitore italiano, infatti, manderebbe il proprio figlio in una scuola che non è vista come un grande risultato; così, al momento di prendere una decisione importante per il figlio, sceglie qualcosa che ritiene più utile a preparare un futuro migliore per lui. E il liceo gode, ancora, di una fama di serietà e di impegno che altre scuole hanno perso o non hanno mai avuto, perché prepara all’università.
Già, ma siamo sicuri che debbano essere i genitori a decidere? Come orientatore, ho sempre affermato che la scelta della scuola superiore deve essere fatta anzitutto – certo non da solo, ma anzitutto − dallo studente e non dal genitore; i dati mostrano, invece, che la pressione genitoriale resta ancora molto, troppo elevata. Mi capita spesso di incontrare ragazzi che opterebbero per studi tecnici o addirittura professionali, i cui genitori risolutamente glielo impediscono. “Nel loro interesse, per evitare che incontrino ambienti problematici”, ovviamente …
Per i ragazzi di terza media, la scelta della scuola superiore è la prima vera, grande occasione per domandarsi seriamente: “cosa voglio, chi sono, cosa desidero diventare?”. Sono domande grandi, importanti, che esigono certamente un sostegno degli adulti – genitori e insegnanti − ma non un’arbitraria sostituzione. È dannoso sostituirsi (anziché sostenerli e guidarli) nel rischiare una risposta, perché gli si comunica, direttamente o indirettamente, una sfiducia nelle loro capacità di aprirsi alla realtà, di guardarsi, di sostenere una responsabilità. Tra l’altro i genitori, spesso e volentieri, guardano i propri figli con “gli occhi del mondo”, misurando e preparando il loro futuro sulla base dei criteri dettati dalle mode del tempo: riuscita professionale, ricchezza, elevato status sociale; in questo modo si precludono la possibilità, interessantissima, di chiedersi: “Chi ho davanti a me? Chi è mio figlio? Qual è davvero il suo bene, il suo destino?”. Sono domande che esigono un distacco e, nello stesso tempo, una apertura attenta alla realtà, per capire davvero attitudini, inclinazioni, desideri e potenzialità, e che diventano anche possibilità di una relazione più matura con i figli.
Siamo davvero sicuri, inoltre, che la qualità della vita dipenda necessariamente dall’erudizione teorica, dall’andare all’università, dall’esercizio di professioni intellettuali? Scelta di qualità non sarà, invece, quella che permette ai nostri ragazzi di percorrere la strada che gli è propria (che noi non conosciamo con certezza a priori…), quella più corrispondente alle loro attitudini – fossero anche quelle di un bel lavoro artigiano − sostenendoli comunque nel cammino anche quando non lo si capisce o addirittura non lo si condivide?
Sono certo che se i nostri ragazzi fossero aiutati a scegliere in prima persona, tenendo più conto delle indicazioni fornite dalla loro storia personale (scolastica, extrascolastica e familiare) e dando meno spazio al desiderio di “proteggerli” o di garantire loro un futuro di “radiosi successi mondani”, le percentuali di iscrizione alle scuole superiori sarebbero diverse, gli istituti professionali (in particolare) smetterebbero di essere considerati come la discarica per gli “scarti di produzione” dei licei e crescerebbero in qualità.
Ma perché accada questo occorre ripensare l’orientamento, partendo però dai genitori! Davvero un’autentica rivoluzione copernicana, perché il mondo degli adulti è molto meno malleabile di quello dei ragazzi e le trasformazioni culturali necessitano di tempi lunghi. In questo caso, però, la crisi attuale (volenti o nolenti….) forse ci darà un mano a fare presto.