I saggi messi in campo da Napolitano si sono occupati anche di scuola, e questa certamente è una notizia. Il documento conclusivo del gruppo di lavoro in materia economico-sociale (Filippo Bubbico, Giancarlo Giorgetti, Enrico Giovannini, Enzo Moavero Milanesi, Giovanni Pitruzzella e Salvatore Rossi) non si esime dall’affrontare in termini molto chiari il problema del potenziamento dell’istruzione e del capitale umano (4.4), alla luce di un obiettivo generale che è quello di favorire uno sviluppo che si traduca in un “aumento del benessere, non in un mero accumulo di beni materiali”.
L’altra relazione, quella del gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali invece ne tace, sottintendendo probabilmente che la riforma ordinamentale della scuola è già stata realizzata: si tratta di farla camminare. Non è la prima volta che un documento programmatico mette la crescita economica del Paese in relazione al miglioramento delle prestazioni dei sistemi di istruzione e formazione, che possono dunque favorire l’abbattimento della disoccupazione e della sottoccupazione.
In questo caso, come dovrebbe avvenire questa riqualificazione, posto che “l’Italia presenta un forte deficit in termini di qualità del capitale umano rispetto ai principali paesi europei”? L’impianto culturale di questa parte del testo riflette un determinato approccio alla scuola, intesa come luogo deputato all’esercizio dell’insegnamento/apprendimento, per cui “le competenze maturate dai giovani al termine della scuola dell’obbligo” determinano parte del loro futuro. Il basso livello di competenze a confronto con altri paesi europei, così come l’insoddisfacente quota di laureati sulla popolazione, sono indici delle criticità che devono essere risolte. I saggi individuano quattro misure da adottare nell’immediato: il contrasto dell’abbandono scolastico; la promozione del merito; l’investimento in istruzione per migliorare la salute e ridurre i costi del sistema sanitario; la scuola digitale.
Sul primo punto, contrasto della dispersione scolastica, il documento economico-programmatico si diffonde in modo particolare, ribadendo l’ottica nella quale si muove: il completamento del percorso scolastico o universitario fornisce una forza lavoro dotata delle “competenze minime richieste da processi produttivi in rapida evoluzione”. L’Italia naturalmente è indietro: quasi 1 giovane su 5 non arriva al diploma (in Europa poco più di 1 su 10); si tratta prevalentemente di stranieri, ma non solo. Da altre fonti sappiamo che il quadro è anche più serio: in alcune regioni del Sud 1 giovane su 3, tra i 15 e i 29 anni, è “Neet”, non lavora né studia. Che fare? Qui il suggerimento dei saggi, rivolto soprattutto alla scuola del primo ciclo, ma non solo, è esplicito: “il miglior strumento di contrasto all’abbandono è il prolungamento della scuola al pomeriggio”. Le attività pomeridiane dovranno essere individualizzate, curvate sulle competenze di lettura, nonché di assimilazione dei fondamenti della logica-matematica e del metodo scientifico. A cadenza regolare, inoltre, le scuole dovranno misurare gli apprendimenti degli studenti a rischio (parole che suoneranno come musica per l’Invalsi!).
Sul secondo obiettivo (promuovere il merito) il documento prende atto drammaticamente dell’ancoraggio dei risultati scolastici e universitari alla condizione sociale delle famiglie di origine: solo il 14 per cento dei figli di operai si iscrive all’università. A questo livello si ripercorrono recenti analisi, come quello dell’Istat, che coniugano il Bes (Benessere equo e sostenibile) all’istruzione, come a dire che l’istruzione si traduce in risorsa anche economica. Da qui la necessità di varare un piano di interventi per il diritto allo studio rivolto agli studenti meritevoli delle famiglie meno abbienti.
Sul piano del benessere comportato dall’istruzione si colloca anche il terzo obiettivo: investire di più nel fattore istruzione per elevare la qualità della situazione sanitaria del Paese. La persona istruita assume generalmente uno stile di vita migliore di chi non lo è. L’educazione alla salute nella scuola e nell’università dovrebbe essere incrementata.
Sull’ultimo proposito, infine, riguardante la digitalizzazione della scuola e della cultura, il testo dei saggi sfonda parecchie porte aperte perché questo punto era parte del programma elettorale di numerose forze che hanno partecipato alle ultime elezioni, compreso il Movimento 5 Stelle. Risuonano echi improntati alla democrazia digitale nell’appello a “una nuova cultura della decisione basata sui dati, che superi le barriere disciplinari e apra la strada agli approcci sistemici e quantitativi che sono ora possibili e necessari”.
Riassumendo e inquadrando gli input in una cornice di riferimento, da questo rapporto che avrebbe dovuto cogliere il meglio delle attuali riflessioni sul nesso tra la scuola e la vita di una comunità, nasce fortemente ribadita una concezione alla Edgar Morin, in cui l’istruzione insegna principi organizzativi, tra cui la cittadinanza attiva di cui fa parte la ricerca del lavoro. Inevitabile, in questa prospettiva, l’insistenza sull’insegnamento per competenze.
Pur apprezzabile perché ricolloca la scuola al centro dell’attenzione, il documento risente della carenza tipica di chi vede la scuola solo dall’esterno e per gli effetti che può avere su altri elementi del puzzle comunitario, senza avere la pazienza di cogliere le ragioni interne per cui i giovani possano interessarsi, migliorare, orientarsi ad una lavoro, decidere di continuare a studiare. L’insieme di questi fattori si chiama “educazione”: essa indica il percorso per cui un giovane è introdotto nella realtà complessa perché è aiutato a intravvederne il significato. Altrimenti non vi si addentra e la percepisce come il bosco oscuro delle fiabe da cui è meglio preservarsi. E sappiamo che la leva educativa è innescata in fondo da una cura per la componente adulta della scuola, i docenti anzitutto, che dovrà pur essere apprezzata, sostenuta, aiutata continuamente a formarsi, ad avere un iter professionale.
Non una parola su questo punto. Ed è un vero peccato.