La tendenza registrata nelle iscrizioni al primo anno della scuola secondaria superiore dimostra che l’istruzione tecnica è lungi dall’avere ripreso quota, mentre l’istruzione professionale statale è in pesante calo.
Queste tendenze vanno lette insieme ai persistenti fallimenti di queste filiere, particolarmente accentuati nell’istruzione professionale.
Un solo dato fra i tanti: fra il primo e il secondo anno, negli istituti professionali si perde il 30% dei ragazzi e il 46% degli iscritti al primo anno non raggiunge il diploma. Uno spreco enorme di risorse umane e materiali.
Ma cosa è successo negli ultimi trent’anni negli istituti tecnici e professionali, che fino agli anni Ottanta hanno costituito l’ossatura della piccola e media impresa del nostro Paese?
Il primo dato è il profondo cambiamento della popolazione studentesca. Oggi si iscrivono agli istituti professionali, in misura minore ai tecnici, gli alunni che vanno male alla scuola media. È un orientamento di segno negativo. A questo si aggiunge l’esplosione della presenza di alunni immigrati: il 78,4% degli alunni con cittadinanza non italiana è concentrato negli istituti tecnici e professionali, contro il 18,7% nei licei. Questo fa dire al sociologo francese Aziz Jellab che esiste una etnicizzazione degli istituti professionali, che dà agli alunni stranieri il sentimento di essere doppiamente marginalizzati: per l’orientamento scolastico e per le loro origini etniche.
Infine negli istituti tecnici e professionali è concentrato l’80,3% degli alunni con disabilità. Anche in questo caso si opera un orientamento di segno negativo.
Il secondo dato riguarda la licealizzazione dei curricoli degli istituti tecnici e professionali: l’introduzione di una dose massiccia di cultura generale di tipo liceale a scapito delle discipline tecnologiche e delle attività pratico-applicative, svuotate e ridotte drasticamente nel numero e nelle ore.
Il terzo dato è il grave disallineamento tra istruzione tecnica e professionale e mercato del lavoro. L’ultimo Rapporto Unioncamere ha evidenziato che imprese e servizi hanno difficoltà a trovare parecchie figure professionali con le competenze tecniche e trasversali che a loro servono.Fra gli under 30 una figura su cinque tra quelle richieste dal mercato del lavoro risulta di difficile reperimento. Ciò significa che istituzioni formative e mercato del lavoro non comunicano ed è totalmente assente un orientamento fondato sui dati.
Ripartire dalla scuola secondaria di I grado – L’ADi considera che il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale debba cominciare dalla scuola secondaria di I grado. È lì che affonda le radici quella gerarchizzazione dei saperi scolastici che mette all’ultimo posto la cultura tecnico-applicativa. Una gerarchia che si propaga alla filiere dell’istruzione e formazione secondaria di II grado, ponendo all’apice i licei, a decrescere gli istituti tecnici, l’istruzione professionale e in fondo la formazione professionale regionale, mentre l’apprendistato non è nemmeno considerato in sede di orientamento.
La scuola media unica, che doveva essere la più importante democratizzazione dell’istruzione in Italia, si è rivelata alla fine un boomerang, esattamente come in Francia. Lo ha bene stigmatizzato il sociologo francese Vincent Troger sull’Observatoire des inégalités. Dice Troger: “La scuola media unica, che doveva essere la risposta democratica all’avvento della scuola di massa, è stata invece costruita a misura e a immagine dell’antico ginnasio elitario. Ciò ha prodotto l’ipervalorizzazione della cultura generale tradizionale. Questa scelta, fatta a misura della classe media, si è poi trasferita sull’insegnamento secondario di 2° grado, dove la cultura generale, teorica e “astratta”, ha assunto il primato assoluto nella gerarchia dei saperi scolastici, declassando tutte le forme di sapere applicato”.
Modificare questa situazione significa intervenire sull’intero primo ciclo, dando vita ad un percorso autenticamente unitario di 8 anni. Ciò sarà possibile solo attraverso l’unificazione delle condizioni degli insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo grado, attraverso lo stesso modello di formazione iniziale, l’omogenea organizzazione del lavoro e dell’orario di servizio, che si auspica onnicomprensivo.
Il secondo elemento è una decisa introduzione in tutto il I ciclo della cultura dell’imparare facendo, dove il “fare” non è solo manualità ma anche un nuovo apprendimento esperenziale attraverso il linguaggio delle tecnologie digitali, che bilanci il predominio di quello simbolico-ricostruttivo.
Una proposta radicale per l’istruzione professionale − Passando al II ciclo, la prima cosa da evidenziare è il clamoroso errore compiuto dal ministro Fioroni con la ristatalizzazione degli istituti professionali attraverso la legge 40/2007, che ne ha tolto la specificità e li ha omologati agi istituti tecnici. La proposta dell’ADi è radicale: l’istruzione professionale statale va abolita come è avvenuto con successo nelle province autonome di Trento e Bolzano. Occorre dare spazio all’istruzione e formazione professionale regionale, IeFP, che sta dando buoni risultati. Gli istituti professionali statali, tranne pochissime eccezioni, dovrebbero essere riconvertiti in parte in istituti tecnici, in parte in istituti di formazione professionale regionale, che impartiscano qualifiche triennali e diplomi quadriennali.
Istituti tecnici a statuto speciale − La proposta dell’ADi per gli istituti tecnici è altrettanto radicale, prevedendo, per la sua valorizzazione, la creazione di istituti a statuto speciale. Il modello è mutuato dalle inglesi academies varate dal primo Blair alle prese con istituti secondari superiori dequalificati, collocati in aree deprivate, che voleva fortemente rilanciare. Le academies hanno mutuato il modello delle charter schools americane, oggi sostenute fortemente da Obama. In entrambi i casi si tratta di scuole pubbliche, finanziate dallo Stato, ma liberate dai vincoli burocratici. Hanno autonomia di assunzione del personale e di organizzazione del curricolo, organi di governo con la partecipazione di sponsor che possono essere di varia natura: università, imprese, singoli filantropi, fondazioni a scopo educativo, imprese. Il solo vincolo è una rigorosa rendicontazione dei risultati.
L’ipotesi dell’ADi è di trasformare in tal senso almeno una parte degli istituti tecnici, definendoli, per l’appunto, “a statuto speciale”. Tali istituti dovrebbero articolarsi su 4 anni, pur mantenendo un orario complessivo quadriennale molto simile all’attuale sui 5 anni. Ciò significa un orario settimanale fra le 36 e le 38 ore, come era in passato, con una clausola inderogabile: l’aumento sarà tutto dedicato alle attività laboratoriali e all’alternanza scuola lavoro.
Questo percorso quadriennale dovrebbe avere come sbocco naturale gli Its, che dovrebbero accentuare la loro vocazione di centri di scienze applicate e diventare competitivi con i corsi di laurea breve. Ciò comporta la loro triennalizzazione, come è avvenuto in Svizzera e in Germania.
C’è un altro punto importante: gli Its dovrebbero essere riservati ai migliori diplomati degli istituti tecnici, dell’istruzione e formazione professionale e dell’apprendistato. Questo sarebbe un modo serio e concreto di valorizzare i percorsi tecnici e professionali di livello secondario, di renderli appetibili, dando loro coerenza con il successivo livello terziario. In questo modo si privilegerebbe, peraltro, chi è stato sempre marginalizzato.
In sintesi gli studenti che scelgono gli indirizzi tecnici e professionali avrebbero un percorso quadriennale a livello secondario e uno triennale a livello terziario, che darebbe loro un titolo equivalente alla laurea triennale, come avviene in tanti altri Paesi europei.