“Click Think. Neoapprendimenti e didattica nella scuola delle tecnologie”. Il titolo di una recente giornata organizzata da Cremit e Università Cattolica formazione permanente e Uciim faceva pensare ad uno dei tanti discorsi sulle nuove tecnologie, sulla loro applicazione didattica. Invece il panorama di riflessione è stato molto più ampio e profondo. E di questo bisogna dare atto agli organizzatori. Della ricca giornata riferisco solo alcuni spunti, che mi sembrano una conquista, un passo in avanti di cui non si può non tenere conto nel trattare di scuola, tecnologia e didattica. Per chi fosse interessato ad un discorso completo,gli organizzatori hanno promesso che i materiali si potranno ritrovare sul sito di Uciim e Cremit.



Interessantissima è stata innanzitutto la prima relazione della dott.ssa Maria Luisa Eboli. Alcuni punti fermi a cui sono arrivate le neuroscienze diventano un dato imprescindibile per chi deve fare scuola. Innanzitutto un luogo comune viene sfatato: le neuroscienze hanno dimostrato che l’uso di pc e altri dispositivi elettronici non è utile per lo sviluppo cognitivo, mentre determinante, centrale è il ruolo del docente. Una posizione così netta rimette in discussione per chi deve gestire la scuola tutta una serie di considerazioni divenute scontate. Se occorre investire, alla luce di questa affermazione, è indubbio che innanzitutto l’oggetto deve essere il docente e la sua formazione e non  la tecnologia. 



Costante del seminario è stato infatti il far riemergere il ruolo del docente come protagonista nella scuola. La tecnologia è stata a mio avviso in questa sede correttamente riposizionata nel suo ruolo di strumento. La buona didattica – è stata considerazione comune sia nel seminario che nei laboratori (almeno in quello che ho seguito di Giaele Infantino) – non la fa la tecnologia ma il docente. Si può riproporre una cattiva didattica con Lim, tablet, pc, e tutta la strumentazione più moderna. Non è che la tecnologia non serva: anzi! Ma il suo compito sta nel rendere più semplice, immediata la realizzazione di una didattica che potrebbe benissimo essere realizzata senza, ma con maggiore sforzo e dispendio di tempo, minore efficacia comunicativa e soprattutto coinvolgimento di studenti in una reale collaborazione. Per esempio anche chi è meno appassionato ad una disciplina può in un lavoro mettere a frutto le sue doti tecniche per la realizzazione di un prodotto presentabile. In questo modo, come sottolineava la Infantino, vengono rimesse in discussione le “gerarchie” scolastiche e viene realizzata concretamente quell’unità dei saperi (umanistico, scientifico e tecnico) tanto sbandierata e auspicata in teoria.



Per dirla in breve: non è lo strumento che determina la didattica ma al contrario la didattica che utilizza lo strumento più efficace. E in questo la tecnologia viene incontro fornendo strumenti molto potenti.

Sempre Eboli ha offerto anche almeno due dati interessanti. In primo luogo esiste una correlazione tra l’attività di apprendimento, lo sviluppo del cervello e la salute della persona. Questo carica di responsabilità la scuola che è prima di tutto il luogo primario, privilegiato in cui l’apprendimento dovrebbe avvenire. Potenziare la scuola vuol dire formare persone che saranno più “sane” psichicamente e fisicamente.

Per chi gestisce una scuola o un’università poi un’altra “provocazione” di Maria Luisa Eboli non può essere taciuta: con frutto in medicina c’è una collaborazione tra università, che fa attività di ricerca, ed ospedale, dove si curano concretamente i malati. Perché non esportare questo modello didattico  vincente nella collaborazione università-scuola? La collaborazione è sempre vincente. E lo si è visto anche in questa iniziativa in cui specialisti di vari ambiti, studiosi, insegnanti, medici si sono trovati  insieme per parlarsi, confrontarsi: tutti interessati a migliorare il proprio ambito tenendo conto delle scoperte altrui.

Del lungo intervento di Maurizio Sibillo, molto interessante il suggerimento iniziale: non si capisce perché ci debba essere una pedagogia separata dalla didattica; questo crea qualche incomprensione ed effettivamente è un nodo che va sciolto.

Innovativa è stata poi la proposta didattica del professor Pier Cesare Rivoltella per risolvere la complessità dell’interagire di tre fattori quali informazione, spazio e tempo. L’informazione oggi è troppa e non gerarchizzata; lo spazio a scuola è sempre più stretto ed occorre tenere presente la relazione tra spazio dentro e fuori la scuola. La percezione diffusa, anche nella scuola, infine è quella di non avere mai tempo a sufficienza. Rivoltella, basandosi sulle riflessioni di autorevoli studiosi ha elaborato per armonizzare questi fattori difficilmente conciliabili gli Eas, episodi di apprendimento situato. 

Solo questo tema meriterebbe una trattazione a parte. Basti qui ricordare che il principio è quello di un apprendimento “a posteriori”, con un lavoro di ricostruzione a partire da un materiale selezionato dal docente. Il tempo da dedicare a questa attività che prevederebbe unità didattiche di due ore sarebbe compensato dalla profondità della trattazione. Se questo suggerimento pare interessante per qualche argomento, molto discutibile invece mi sembra la proposta di una valutazione degli studenti sui processi e non sui contenuti. Ma questo tema, come si è detto, per la sua rilevanza e le sue implicazioni didattiche merita un’ampia riflessione a parte.

Simona Ferrari ha poi relazionato sulle sperimentazioni monitorate dal Cremit, non nascondendo alcune difficoltà o perplessità di studenti nell’uso di pc, iPad, Lim. 

Insomma. Mi sembrava rilevante condividere un’esperienza che a mio avviso non può lasciare indifferente chi si occupa di scuola e in particolare di tecnologie nella scuola. Con iniziative come questa le premesse per un lavoro fruttuoso ci sono.