Ci sono due principali, sostanziali modi di guardare alla scuola media (ricorro per semplicità a questa antica espressione, oggi “scuola secondaria di primo grado”). 

Il primo è quello tracciato dai ragazzi di don Milani in Lettera a una professoressa (1967): una scuola chiamata a garantire l’uguaglianza dei Gianni e dei Pierini, del figlio dell’operaio e di quello del medico, ad aprire cioè a tutti in egual modo le strade del sapere e dell’emancipazione sociale e culturale, una scuola dunque “dell’equità” coerente con una democrazia autentica e non solo formale. 



Il secondo modo è quello presentato da Pier Paolo Pasolini in un celebre e discusso articolo apparso nel 1975 nel quale proponeva la “immediata abolizione della scuola media dell’obbligo” perché in essa, a suo dire, si “insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori”. Di fronte a “questa scuola media”, concludeva Pasolini in modo evidentemente provocatorio, “una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso”.



A me pare che l’uno e l’altro modo di guardare alla scuola media siano oggi improponibili. 

Non basta mandare tutti a scuola e prolungare la permanenza scolastica perché una società sia meno diseguale, anche se questo fatto è certamente un dato da cui non si può prescindere. È andato ormai da tempo in frantumi l’assioma alla base della riforma del 1962 secondo cui più si studia e più prestigiosi sono i titoli di studio che conseguono, migliori sarebbero la posizione sociale finale nella vita e più elevato il reddito. 

Ma neppure appare convincente il “de profundis” di Pasolini e la sua sfiducia nella forza civilizzatrice della scuola che costituisce un bene collettivo da tutelare e proteggere. Anche se oggi – di fronte alle nuove regole dettate dall’economia globalizzata – non mancano studiosi che, come Norberto Bottani nel suo ultimo libro (Requiem per la scuola?),  non esitano a denunciarne i limiti e il rischio che essa, compiuto il dovere di assicurare l’alfabetismo di massa, rischi di essere utile solo per creare posti di lavoro per i docenti e incrementare i profitti degli editori di libri di scuola. 



La celebrazione della riforma della scuola media che si è consumata in questi giorni su alcuni giornali (con qualche stortura storiografica come se il traino alla riforma fosse da riconoscere nelle sole forze progressiste azioniste e socialiste) merita attenzione, a condizione che si accompagni a un interrogativo radicale: si può immaginare un’“altra scuola media” in grado di rimpiazzare quella disegnata 50 anni fa e ormai irriconoscibile, anche senza scomodare i vistosi cali negli apprendimenti?

Certamente gli 8 miliardi di tagli alla spesa scolastica degli ultimi anni non hanno fatto bene al sistema formativo nazionale, ma bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che non basterà rinsanguare le casse dell’istruzione per riconquistare livelli educativi più significativi. 

Un’“altra scuola media” è possibile a due condizioni. La prima è legata all’assunzione della consapevolezza di un passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza molto più articolato e complesso rispetto a quanto poteva accadere anche soltanto fino a qualche anno fa, per una serie di ragioni che sono davanti agli occhi di tutti e che non è qui il caso di riprendere. 

A questa esigenza si può rispondere con una scuola centrata sulla formazione della responsabilità personale e sul principio del lavoro ben fatto. Un tempo questi valori erano scontati, oggi non più. I 12-14enni di oggi sono, sotto certi aspetti, più adulti e apparentemente emancipati rispetto ai loro coetanei del passato, ma sotto molti altri aspetti sono ancora molto “bambini”. Troppi genitori e anche molti insegnanti sono convinti di aiutare i rispettivi figli ed allievi a crescere tenendoli in un’area protetta.

Errore imperdonabile. Si cresce invece solo aprendosi alla sfida di “diventare grandi” e questo accade se i ragazzi che si avviano all’adolescenza sono posti di fronte a obiettivi chiari e a responsabilità precise. Nel mondo della virtualità un bel bagno nella realtà con le sue inevitabili regole non fa male e aiuta a crescere. Non si diventa “bamboccioni” a 30 anni, in molti casi il bamboleggiamento comincia molto prima. 

La seconda è il recupero di una delle motivazioni forti della istituzione della scuola media unica cioè la sua funzione orientativa. 

Gesualdo Nosengo, uno dei grandi promotori della riforma del 1962 (presidente storico dell’Uciim), parlò all’indomani dell’approvazione della legge di una “scuola per tutti e per ciascuno”, con una felice sintesi degli obiettivi sociali e personali che, al tempo stesso, la nuova scuola avrebbe dovuto perseguire. 

La scoperta di sé costituisce una dimensione essenziale nella costruzione della personalità, specie in una società nella quale tutto sembra livellato intorno ai desideri più semplici e purtroppo spesso anche più scontati. 

La scuola media potrà vincere quella che oggi sembra la sua debolezza strutturale – né elementare né scuola superiore – se saprà aiutare gli alunni a “scoprirsi” e lo saprà fare mediante pratiche didattiche non solo imperniate sul “dire”, ma anche sul “fare”. E cioè avendo a modello non solo la cultura liceale, ma anche quella dell’esperienza pratica. 

Solo a questa condizione si potrà sfuggire alla banalità dell’orientamento esclusivamente basato sugli apprendimenti disciplinari tradizionali che incoraggia automatismi degni del primo Novecento: gli allievi migliori al liceo, quelli così così all’istruzione tecnica e infine i ragazzi con maggiori difficoltà agli istituti professionali.

Chi avesse tempo e piacere di approfondire questi due punti qui sommariamente indicati rinvio al volume apparso recentemente di Maria Teresa Moscato, Predolescenti a scuola (Mondadori). Una bella rassegna su cos’è e su cosa potrebbe essere la scuola media oggi e domani.  

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