La Corte costituzionale ha bloccato sul nascere le ambizioni riformatrici della Regione Lombardia, adottando una pronuncia che non può certo dirsi sorprendente. 

Con la sentenza n. 76 del 2013 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge regionale n. 7 del 2012, della disposizione, cioè, con la quale il Consiglio regionale lombardo aveva sostanzialmente introdotto una nuova forma di reclutamento degli insegnanti. Infatti, sia pur «a titolo sperimentale», l’articolo in questione consentiva alle singole istituzioni scolastiche di «organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi, per reclutare il personale docente con incarico annuale necessario a svolgere le attività didattiche annuali» e favorire così «la continuità didattica». 



Come ha ben ricordato il giudice delle leggi, però, la Regione finiva, in tal modo, per disporre «in merito all’assunzione di una categoria di personale, appunto quello docente, che è inserito nel pubblico impiego statale». Ciò non può avvenire, poiché – la Corte ha avuto modo di spiegarlo anche in altre occasioni – tali profili rientrano pacificamente nella competenza legislativa esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, «trattandosi di norme che attengono alla materia dell’ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato».



Viene naturale chiedersi, oggi, perché mai un legislatore regionale si sarebbe avventurato in una soluzione chiaramente destinata alla soccombenza.

In proposito si può segnalare, per prima cosa, che con tutta probabilità la Regione Lombardia non era così certa dell’esito infausto, giacché – il dato è reso palese dal tenore della sua difesa e dalla corrispondente registrazione che la Corte ne ha dato in motivazione – confidava nel fatto che l’operatività della norma in esame fosse stata espressamente concepita «nell’ambito delle norme generali o di specifici accordi con lo Stato» (era questo il tenore dell’articolo dichiarato illegittimo). In sostanza, una tale riforma degli ordinari strumenti di reclutamento del personale docente, anche solo precario, sarebbe divenuta efficace soltanto laddove la Regione avesse stipulato un’apposita intesa con lo Stato ovvero solo nella misura in cui risultasse compatibile con le norme generali sull’istruzione, e quindi con quella parte dell’ordinamento scolastico che, per quanto stabilisce la Costituzione (art. 117, secondo comma, lett. n), deve essere definita dallo Stato.



Il fatto è che questa impostazione peccava comunque di forti ingenuità: la Corte stessa le ha rilevate, evidenziando, tra l’altro, che, in base al principio di leale collaborazione, non è mai possibile, da parte delle Regioni, disciplinare unilateralmente forme di cooperazione o di coordinamento. Si potrebbe anche aggiungere – per completare il quadro – che per la materia dell’istruzione (così come per l’organizzazione della giustizia di pace e per la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) è la Costituzione, nell’art. 116, comma terzo, a stabilire direttamente ed inequivocabilmente che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere riconosciute alle Regioni soltanto in esito ad un procedimento specifico (con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119; e la legge statale, in ipotesi, deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata).

Si deve riconoscere, quindi, a meno di non voler desumere la disarmante incoscienza dei consiglieri regionali e degli uffici tecnici che li coadiuvano, che la soluzione seguita dalla Lombardia altro non era che una “legge manifesto”. Si trattava di un tentativo di imporre al dibattito nazionale – che in tema di accesso alla cattedra è sempre tanto sensibile quanto irragionevolmente bloccato su posizioni stereotipate e rimedi molto complessi ed elefantiaci, come usualmente sono i fatidici “concorsoni” – un’agenda che si proponga di affrontare l’emergenza-precari e l’urgente esigenza di meglio dimensionare il rapporto territoriale tra la domanda e l’offerta. 

Che questo rapporto sia storicamente diverso, da Regione a Regione, è un fatto fin troppo noto; ed è altrettanto noto che su di esso incidono, non solo formalmente, sia ambiti nei quali le Regioni hanno una riconosciuta potestà legislativa (rete scolastica e dimensionamento delle istituzioni scolastiche), sia fattispecie in cui gli enti sub-statali, e segnatamente quelli locali, sono titolari (in quanto proprietari degli edifici scolastici) delle prerogative che più mettono in difficoltà la distribuzione delle risorse e degli utenti del servizio di istruzione. Inoltre, non è del tutto irragionevole – almeno in senso assoluto – ipotizzare che le istituzioni scolastiche, in quanto dotate di autonomia (in primo luogo didattica: così è definita dallo Stato medesimo), siano al centro dei processi di definizione del fabbisogno organico e di soddisfazione delle connesse esigenze di reclutamento.

La sentenza della Corte costituzionale, dunque, mentre riafferma principi del tutto pacifici e condivisibili, da un lato “mette in circolo” la possibilità che, di qui in poi, il Parlamento nazionale si attivi per immaginare modelli più verosimili e flessibili di reclutamento; dall’altro responsabilizza in modo ancor più forte il livello centrale dell’amministrazione scolastica, che, come è risaputo, ha nella gestione frammentaria degli incarichi temporanei di insegnamento un grande “tallone d’Achille”. Sul punto, stando alla metafora, si può ricordare che la freccia è già stata scoccata, in quanto è attesa a brevissimo la sentenza con cui proprio la Consulta (dopo la discussione nell’udienza pubblica del 24 marzo 2013) dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni che, in apparente disarmonia con il diritto dell’Unione europea, consentono la successione di ripetuti contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.

La riforma lombarda, in definitiva, non poteva passare inosservata e la sua (corretta) espunzione dall’ordinamento vigente, lungi dal chiudere definitivamente i termini attuali di una discussione molto delicata, ha posto le basi per la ricognizione di un bisogno normativo non più differibile. 

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