A ben guardare la lunga marcia della scuola italiana verso il digitale, partita da subito con il piede sbagliato nel 2005 con un decreto, per altro prontamente accantonato, che prometteva alle famiglie significativi risparmi nella spesa per i libri scolastici grazie al passaggio ai pdf, non si è mai liberata da quella equivoca ipoteca iniziale.
Eppure nei decenni precedenti, fin dagli anni Ottanta, quando si avviò felicemente nella scuola italiana il Piano nazionale di informatica, indispensabile nell’immediato a preparare figure professionali in grado di trovare occupazione in settori in cui le nuove tecnologie erano già operanti, non erano mancate le giudiziose riflessioni, le ricerche, gli studi ed alcune importanti iniziative sulla necessità di tenere d’occhio lo straordinario sviluppo delle tecnologie della comunicazione, inevitabilmente destinate a coinvolgere prima o poi la scuola, luogo “di comunicazione” per eccellenza.
Ma una comunicazione, va precisato, del tutto particolare per i soggetti tra i quali si sviluppa (docenti e discenti), per le finalità che persegue (acquisizione di competenze, sviluppo di conoscenze, costruzione di una cultura il più possibile personalizzata) ma soprattutto per gli strumenti di cui tradizionalmente si è sempre avvalsa e di fatto continua ad avvalersi, in ordine ai contenuti che comunica. Parliamo del patrimonio di esperienze, capacità espressive, saperi, produzioni artistiche, metodi d’indagine, forme organizzative della società, e quant’altro è stato e viene costantemente fissato con la parola scritta e conseguentemente stampata, da Gutenberg in poi e che ora sta anche in internet, ma non è ancora la stessa cosa.
Il passo falso e l’errore di fondo è stato ritenere che proprio la variabile “contenuti” fosse irrilevante nel caso della scuola e che fosse sufficiente veicolare i contenuti attraverso i nuovi supporti, che si andavano via via perfezionando e che sono tuttora in costante evoluzione, per avere i medesimi risultati, con l’ulteriore vantaggio di un presunto colossale risparmio.
Ma se i discenti (i cosiddetti nativi digitali) si avviavano ad esser sempre più diffusamente in grado di familiarizzare con i nuovi supporti, divenuti rapidamente strumenti quotidiani per “giochi” fantastici, anche se molto solitari e non sempre idonei a far distinguere il reale dal virtuale, lo stesso non accadeva per i contenuti dell’apprendimento, in edifici scolastici ed aule poco o per nulla diversi dal passato e con docenti che nell’esercizio della loro articolata funzione, ed ancor più alla luce della responsabilità circa i risultati da ottenere, preferivano comprensibilmente avvalersi degli strumenti più collaudati. I libri tradizionali, appunto, e per di più quei particolarissimi libri che sono i testi scolastici; oltre tutto, a conti fatti, meno costosi rispetto al complesso armamentario necessario per accedere a pdf e quant’altro, ed acquistabili anche al mercato dell’usato.
È in proposito significativo che nel 2008 l’articolo di legge che introduceva l’uso del digitale nella scuola italiana, dopo il tentativo legislativo non andato a buon fine del 2005, s’intitolasse “costo dei libri scolastici” e non “avvio di un processo di trasformazione della didattica e del dialogo educativo attraverso un uso intelligente delle nuove tecnologie della comunicazione”.
Ed è altrettanto significativo che quella “riforma” davvero decisiva non venisse valorizzata dall’investimento delle risorse necessarie alla molteplicità di interventi da avviare subito perché il cambiamento rappresentasse in modo tangibile un progresso per il paese e per le giovani generazioni, e non un’ipotesi di risparmio per le famiglie. D’altronde la crisi era già in cammino, anche se non ancora ai livelli ed alla velocità di oggi. E tutti hanno fatto quel che potevano.
Ne è prova il decreto attuativo n. 41, emanato nel 2009, che ha avuto il merito di individuare una gradualità che ha comunque funzionato, sia pure a corto di risorse pubbliche, attivando anche nelle case editrici uno sforzo di adeguamento tanto più impegnativo in una fase di crescente crisi economica per tutte le aziende e di perdurante incertezza nella scuola.
E meglio ancora avrebbe funzionato se le migliori intenzioni pur presenti nella scuola e nell’editoria non avessero dovuto fare i conti con il perverso blocco sessennale e quinquennale di adozioni ed edizioni (il famigerato art. 5 del decreto-legge 137/2008) che ha messo seriamente in difficoltà il processo che si stava faticosamente avviando nelle scuole e nelle case editrici, a tutto vantaggio del mercato dell’usato, la cui logica è opposta a quella dell’innovazione.
E ciò vale per tutti i prodotti, non solo per i libri scolastici.
Il rilancio effettuato nel 2012 dall’Agenda digitale, e dall’articolo 11 della legge 221, punta di nuovo e con rinnovata decisione allo sviluppo delle nuove tecnologie nella didattica e nei processi di apprendimento, cancellando innanzitutto l’ignominia dei blocchi, restituendo agli insegnanti la quota di autonomia confiscata in materia di scelte adozionali ed agli editori la libertà di innovazione. Questo è sicuramente un dato positivo, ma come è accaduto in passato si finisce con lo scommettere sul risparmio delle famiglie per l’acquisto dei “contenuti” culturali, risparmio ancora da verificare nella sua reale entità (Iva sui prodotti digitali al 21% permettendo) e da destinare comunque all’acquisto o alla fruizione onerosa dei supporti, senza i quali i contenuti non cartacei non sono accessibili.
Ancora una volta mancano prospettive e quantificazioni realistiche delle risorse pubbliche e private necessarie, credibili solo se si riescono a coniugare ragionevolmente traguardi sostenibili condivisi, da raggiungere alle relative improrogabili scadenze; periodiche verifiche dello stato di avanzamento dei processi che impegneranno tutti gli attori; eventuali priorità da segnalare e soddisfare tempestivamente per non avviare anche su questo terreno, davvero decisivo per il nostro futuro, il gioco allo scaricabarile così caro agli italiani.