C’è un dubbio amletico che sta accompagnando gli studenti delle classi quinte delle scuole superiori: concentrarsi sugli esami di maturità oppure dividere questo impegno con la preparazione dei test universitari? Sappiamo le novità introdotte dal ministro Profumo: i test di ingresso di quest’anno sono stati anticipati a fine luglio, cioè a poche settimane dalla fine degli esami di Stato, ma il prossimo anno si terranno ai primi di aprile. Il dubbio di quest’anno, dunque, l’anno prossimo produrrà una situazione paradossale, con studenti che avranno magari superato i test ma che, nel frattempo, potrebbero rischiare la bocciatura agli esami di Stato.



Al di là di questo paradosso, tutta la questione, in realtà, rimanda allo snodo vero del mondo della scuola, mai affrontato in termini seri e con dati alla mano. Parlo dell’orientamento, sia in entrata (dalle medie alle superiori) come in uscita (università o mondo del lavoro). La vita della scuola, in altri termini, cioè la didattica e la sua organizzazione, ma anche gli organici ed i contratti dei docenti, andrebbe tutta modificata e ripensata. Ci vorrebbe, ad esempio, una didattica nuova, finalizzata non alla rigidità degli apprendimenti, come è oggi, ma aperta alla scoperta dei talenti, supportati da abilità e da competenze realmente spendibili. Cioè una didattica laboratoriale, e non solo frontale, capace di orientare in concreto le scelte degli studenti e delle famiglie. Uno studio, dunque, per l’apprendimento, non più uno studio utilitaristico, per il voto.



Non solo. Per dare una mano concreta, dovremmo abolire il valore legale del titolo di studio, e le certificazioni dovrebbero avvenire su livelli di apprendimento, vincolanti l’iscrizione alle superiori e all’università. Non ha infatti più senso il libero accesso, figlio del ’68. Con la maturità, poi, a 18 anni, già prevista come obiettivo n.5 dalla Ue entro il 2020, offriremmo infine ai nostri studenti la pari opportunità con i giovani di tutta Europa. Tutta la scuola, dunque, andrebbe rinnovata. Mentre non mi pare, al di là di alcuno slogan d’annata, che il tema della formazione sia al primo posto nelle priorità a livello politico, sindacale e sociale.



Quanti si accorgono, ad esempio, che uno studente delle superiori, quando è in classe, è trattato allo stesso modo di un alunno di sette anni? Stessa modalità di approccio, stessa didattica, stessa rigidità organizzativa. Cambiare la scuola si può: basta consentire, sulla base di un Albo dei docenti, come in altre parti d’Europa, l’assunzione da parte delle scuole dei migliori insegnanti, con contratti differenziati ed in ragione delle competenze didattiche accertate. Ma ci vorrebbe una diversa struttura di governo, senza più un ministero centrale bensì con la responsabilità assegnata alle Regioni, come in Germania.

Il tema dell’orientamento, come si vede, ci porta inevitabilmente al cuore dei problemi, cioè la qualità dei docenti e dell’offerta formativa, come anche della stessa struttura gestionale ed organizzativa. Secondo un’etica della responsabilità. Capace di garantire ai nostri studenti le migliori opportunità per il loro (e nostro) futuro. In attesa della maturità a 18 anni perché, ad esempio, non consentire alle scuole il ridisegno, su standard e verifiche nazionali, dell’ultimo anno delle scuole superiori? Con una organizzazione scolastica pensata, per i licei come per gli istituti tecnici, in relazione alle possibili scelte universitarie dei propri studenti, con classi aperte e quadri orario dinamici? Daremmo una mano concreta ai giovani d’oggi, visti i tassi di abbandono al primo anno di università (18,5%) ed il crollo degli iscritti (-13,5% in sei anni).

Quale futuro possiamo, poi, garantire al nostro territorio, se le nostre imprese assumono (quando assumono) solo per il 14,5% laureati, solo per il 40,9% diplomati, rispetto al totale delle assunzioni? Di contro al 30% di laureati dell’Olanda e della Gran Bretagna, del 22% della Germania, della Francia, ma anche della Spagna. Con una media Ue del 27%. Mentre cioè in tempi di contrazione della disoccupazione gli altri Paesi puntano sui laureati, noi invece crediamo ancora, come sistema Paese, di garantirci un futuro attraverso la sola “arte di arrangiarsi”. Altri dati fanno pensare. La percentuale di laureati nelle nostre classi dirigenti (dai 30 ai 40 anni) è il 15,4%, in Inghilterra del 44,3%, in Germania del 62,7%, in Spagna dell’86%, in Francia dell’89,9%. Dati forniti dalla Luiss di Roma.

Ci sono poi i laureati che svolgono mansioni lontane dal proprio percorso di studio: in Italia siamo al 30,5%, in Spagna, a Cipro ed in Irlanda al 38%, in Francia al 26%, in Germania al 18%, con una media europea del 22%. Questo per dire che le lauree non hanno tutte lo stesso valore. I nostri laureati nel 2008, ad un anno dalla laurea, lavoravano per l’84,6%, nel 2010 per il 62,6%. Non ho sottomano gli ultimi dati, ma già li immagino. Lo squilibrio tra domanda e offerta di laureati vede (dati 2010) gli ingegneri in attivo di 19.700 posti di lavoro, i laureati in economia e statistica in attivo di 14.600, i medico-sanitari in attivo di 7.800, i giuristi in attivo di 3.800.

Tutte le altre lauree risultano in passivo, in particolare i politico-sociali di 15.100, i letterati di 10.200, i linguisti di 7.000, gli psicologi di 4.400, gli architetti di 3.700, i geo-biologi di 3.200, i laureati di educazione fisica di 1.400, quelli scientifici di 1.200, gli agrari di 700, i farmaceutici di 600, come quelli dediti all’insegnamento primario. La scuola e l’università devono, in conclusione, aiutare concretamente gli studenti a scegliere, sulla base di informazioni chiare e complete. Ma l’informazione da sola non basta. Va accompagnata da percorsi formativi capaci di far emergere talento, passione, sensibilità, dedizione. Con un occhio particolare ai possibili sbocchi occupazionali. Sapendo, comunque, che molte professioni dei prossimi anni oggi ancora non le conosciamo.