Come sempre più spesso succede nel mondo informatizzato, giungono contemporaneamente molteplici informazioni che si riconducono allo stesso tema ma che provengono da fonti molto diverse e si riferiscono a livelli di realtà spesso estremamente lontani tra loro.
Applicando questa convinzione, ci pare interessante proporre l’accostamento di tre tipi di notizie riguardanti il tema della valutazione scolastica.
1. Il Sistema nazionale di valutazione – La prima notizia riguarda l’approvazione, da parte del governo, del Regolamento sul Sistema nazionale di valutazione (Snv). Si tratta di un regolamento che dovrebbe realizzare il principio secondo cui spetta al ministero fissare gli indirizzi generali circa la valutazione degli alunni, il riconoscimento dei crediti e dei debiti formativi, e che si propone di fornire un impulso alle procedure di valutazione e autovalutazione degli istituti scolastici.
Il maggiore problema legato a tale regolamento sta nel fatto che l’Snv dovrebbe essere il frutto della sinergia tra tre soggetti: l’Invalsi, l’Indire e il corpo ispettivo, le cui attribuzione sono però a tutt’oggi definite in modo non del tutto coerente.
In particolare, l’indeterminatezza riguarda l’Indire. Nel corso degli ultimi anni questo ente ha subito diverse denominazioni. Non si è trattato infatti di un semplice cambio di nome ma di mutamenti sostanziali nella mission: dalla documentazione pedagogica alla formazione degli insegnanti, alla predisposizione di piattaforme per l’apprendimento online, al supporto alla realizzazione dell’autonomia, al monitoraggio dei progetti ministeriali. Pare ora che si prospetti un recupero di quello che a nostro avviso ha sempre costituito il punto di forza di tale istituzione, cioè la formazione.
A livello territoriale (anche se in modo disomogeneo nelle diverse regioni) gli Irrsae sono stati per lungo tempo un riferimento fondamentale per le scuole e gli insegnanti. Ora il nodo starà nel precisare a livello operativo in quale forma dovrà realizzarsi quell’azione di “supporto alle istituzioni scolastiche e formative nella definizione e attuazione dei piani di miglioramento della qualità dell’offerta formativa e dei risultati degli apprendimenti degli studenti” e soprattutto precisare quando ciò avverrà.
In mancanza, rischia di essere poco produttivo che le scuole siano chiamate a realizzare azioni di autovalutazione e di valutazione di sistema senza disporre di strumenti, suggerimenti, strategie che possano orientarne preventivamente in modo corretto e soprattutto scientifico e rigoroso l’azione. La valutazione dovrebbe verificare il cambiamento che le scuole sono capaci di realizzare. Ma le condizioni che rendono possibile tale cambiamento e che necessariamente vengono molto prima della fase di valutazione continuano a rimanere imprecisate.
Ci chiediamo soprattutto se possono essere formulate proposte di valutazione e autovalutazione in assenza di adeguate conoscenze del processo di apprendimento. Prima ancora di chiedersi come valutare gli allievi occorrerebbe forse chiedersi come farli apprendere e soprattutto occorrerebbe non inseguire le mode didattiche o ritenere che la digitalizzazione sia la panacea di tutti i mali. Le neuroscienze hanno permesso, nell’ultimo decennio, di disporre di molte conoscenze relative al modo con cui funzionano il cervello e la mente dei bambini e dei ragazzi, ma di tutto ciò poco è transitato agli insegnanti.
Se è vero, come ricorda il titolo di un testo americano, che valutare significa “sapere che cosa sanno gli allievi”, bisogna prima fare in modo che gli allievi possano acquisire sapere (non solo teorico, perché esiste anche un “sapere nell’azione”) e quindi occorre conoscere le strategie a cui fare ricorso. Soprattutto occorre predisporre percorsi di apprendimento coerenti e sistematici: cosa che nella scuola di oggi avviene sempre meno, in nome di un apprendimento parcellizzato che sembra regolare la vita moderna ma che rischia anche di non permettere una vera acquisizione dei contenuti culturali.
Altrettanto problematico rischia di essere il ricorso agli ispettori scolastici. In questo caso non esiste solo un problema di dettaglio dei compiti, ma anche di numeri. Il concorso bandito nel 2008 a 145 posti di dirigente tecnico ha visto ammessi all’orale solo 79 candidati. Di questi non si sa ancora quanti abbiano superato la prova orale, ma ci risulta che molti di essi abbiano ottenuto una valutazione negativa. Considerato il numero delle istituzioni scolastiche, come potrà essere costituito un numero adeguato di nuclei di valutazione? Ci si può inoltre chiedere come potrà essere realizzata, in termini temporali, una corretta osservazione degli istituti scolastici, che serva davvero a questi ultimi a comprendere i propri punti di forza e di debolezza.
Anche in questo caso il problema della significatività dei dati rilevati risulta a nostro avviso centrale.
Il rischio è che la valutazione della scuola continui a essere vissuta come processo separato dalla realtà quotidiana in classe e che quindi non determini quel miglioramento del tasso di successo scolastico degli studenti che invece si auspica.
2. Le prove Invalsi − La seconda notizia attiene alla proclamazione da parte del sindacato Cobas dello sciopero per i docenti chiamati nel mese di maggio a somministrare le prove Invalsi.
Al di là di ogni valutazione sulle strategie sindacali, che non ci compete, riteniamo che non si possa continuare a ignorare le domande che un elevato numero di insegnanti si pone: 1. A che cosa servono tali prove? A delineare degli standard nazionali? A valutare la qualità degli istituti scolastici? A valutare la qualità dei singoli insegnanti? A valutare gli apprendimenti degli allievi? Le valutazioni su larga scala non possono avere le stesse finalità delle valutazioni a livello di classe o di singola scuola. In proposito gli insegnanti lamentano un’indefinitezza che conduce molti di loro a rifiutare l’utilità delle prove Invalsi. 2. Quali informazioni vengono messe a disposizione dei docenti per migliorare il proprio insegnamento? 3. Consentono davvero di individuare quali sono i problemi che gli allievi incontrano nell’apprendimento scolastico? 4. In che misura si differenziano o sono analoghe alle prove di verifica, ai compiti in classe utilizzati dalla maggioranza dei docenti? 5. Sono davvero indice di comprensione e di competenza? 6. Possono costituire una fonte di informazioni attendibile e significativa per valutare la qualità degli insegnanti?
I docenti coinvolti sia nelle prove del Pisa sia nelle prove Invalsi sottolineano come le prime evidenzino in modo molto chiaro la necessità di rivedere le strategie didattiche, cosa che invece non accadrebbe per le prove Invalsi, maggiormente coerenti con quanto gli insegnanti fanno in classe ma anche meno suscettibili di indurre modificazioni della didattica.
Non a caso, le prove del Pisa fanno riferimento al costrutto di competenza: non intendono evidenziare ciò che un allievo “sa”, ma se sa utilizzare quanto ha imparato, cioè se riesce a generalizzare e trasferire le conoscenze e le abilità acquisite. Ciò comporta il superamento dei manuali scolastici e la capacità di selezionare le informazioni, di individuare i concetti chiave, di discernere la pertinenza della risposta rispetto alla domanda. Con le prove del Pisa è difficile barare perché in gioco è soprattutto la capacità di elaborazione cognitiva dello studente.
Le prove Invalsi sono andate man mano avvicinandosi a tale modello, ma forse presentano ancora un’eccessiva attenzione per il “che cosa” gli allievi devono avere appreso. Da ciò forse discende il timore degli insegnanti che dagli esiti di tali prove possano discendere graduatorie volte a individuare insegnanti “buoni”, capaci, e insegnanti meno buoni, meno capaci.
Chiunque lavori nella scuola sa che non è possibile stabilire delle graduatorie, perché, come ci ha insegnato la scienza della complessità, ogni classe, ogni allievo presenta variabili che lo differenziano dalle altri classi, dagli altri allievi, e che determinano percorsi non riproducibili se non a grandi linee. Quindi non esiste un docente che sia in assoluto migliore dei colleghi: il contesto, il momento temporale, fanno sì che si possa funzionare ottimamente in un livello di scuola, in un ambiente sociale, con allievi di una specifica età e non altrettanto in condizioni diverse.
3. Gli insegnanti per il 21mo secolo: utilizzare la valutazione per migliorare l’insegnamento − Questo è il titolo del rapporto presentato dall’Oecd all’International Summit of the Teaching Profession, tenutosi il 13 e 14 marzo ad Amsterdam. Esso era già stato preceduto da due documenti analoghi e soprattutto dal progetto denominato Talis (Teaching and Learning International Survey).
Questo rapporto richiama l’attenzione su quello che dovrebbe essere il tema centrale da sottoporre ai decisori politici: occorre ragionare in termini di sviluppo professionale dei docenti e non di semplice valutazione, perché solo lo sviluppo professionale comporta una stretta relazione con il livello di apprendimento degli allievi. Il concetto di sviluppo, unito a quello di professionalità, consente di ricondurre a unità coerente sia tutti gli aspetti attinenti alla situazione degli insegnanti sia tutti gli aspetti attinenti al contesto in cui essi operano e quindi, in particolare, agli alunni.
Riferirsi alla professionalità significa assumere che un insegnante dovrebbe disporre di una base di conoscenze specializzate (la cultura tecnica); dovrebbe impegnarsi a soddisfare i bisogni degli alunni (l’etica professionale); dovrebbe possedere una forte identità collettiva (l’impegno professionale); dovrebbe essere sottoposto a un controllo collegiale e non burocratico sulla propria attività e sugli standard professionali (l’autonomia professionale).
Solo lo sviluppo professionale comporta un cambiamento nell’insegnante. La sola valutazione esterna, al contrario, può addirittura indurre un radicamento nelle proprie abitudini e nei propri atteggiamenti.
Nel rapporto è particolarmente interessante la lettura del capitolo in cui si opera una disamina dei diversi strumenti utilizzati nei paesi dell’Oecd per valutare i docenti.
Due elementi, in tale capitolo, ci sembra dovrebbero essere attentamente considerati dai soggetti che, all’interno del Sistema nazionale di valutazione italiano, interverranno a valutare le scuole.
1. Attribuire molta importanza ai risultati ottenuti dagli studenti significa rischiare di utilizzare modalità di valutazione in cui gli insegnanti “vengono puniti o premiati per risultati che sono al di fuori del loro controllo” (p. 35). Risulta infatti difficile stabilire lo specifico contributo che un docente dà alle performance dei suoi studenti. “L’apprendimento è infatti influenzato da molti fattori: le capacità degli studenti; le loro aspettative, la motivazione, il comportamento, il supporto che ricevono dalla famiglia, l’influenza del gruppo dei pari, l’organizzazione della scuola, le risorse in termini di strumenti e attrezzature, la struttura del curricolo, i contenuti disciplinari. Inoltre gli interventi degli insegnanti hanno caratteristiche cumulative: in un dato momento, lo studente è influenzato anche dagli insegnanti che ha avuto in precedenza. Il riferimento puro e semplice ai risultati standardizzati riflette molto di più dell’impatto che il singolo insegnante ha sullo studente” (p. 35).
2. Occorre attivare un sistema in cui gli insegnanti e i dirigenti scolastici condividano e lavorino nello stabilire gli obiettivi di apprendimento degli studenti e le modalità di valutazione dei progressi verso il raggiungimento di tali obiettivi.
Tenere conto di tali elementi significa, a nostro avviso, affrontare con gli insegnanti la riflessione sul concetto di sviluppo (il proprio e quello degli studenti) come percorso non unidirezionale, fatto di guadagni e perdite, di continuità e discontinuità, nel quale ogni scostamento marginale può condurre a risultati diversi e mettere in evidenza il gioco dei vincoli e delle possibilità. Se si vuole ottenere davvero un cambiamento occorre incidere sul nucleo profondo delle teorie che ogni insegnante si è costruito e alle quali spesso è stata condotto anche da informazioni non del tutto corrette ricevute da fonti non scientifiche. Ma vuol dire anche fornire un modello esplicativo che permetta di “comprendere” il comportamento degli allievi e quindi di mettere in atto le azioni più corrette.
Il vero nodo della valutazione, pertanto, consiste nel chiedersi in quale misura si riesce a incidere sulle teorie a cui ogni insegnante, consapevolmente e inconsapevolmente, fa riferimento: non tanto le teorie esplicite, dichiarate, quanto le teorie ingenue che stanno a fondamento dell’azione in classe. La valutazione non può pertanto non accompagnarsi a una seria azione di formazione, che permetta agli insegnanti di appropriarsi delle teorie pedagogiche e didattiche a livello di azione e non soltanto di dichiarazione.
Gli insegnanti necessitano però anche di un feedback della propria azione accompagnato dal riconoscimento del proprio impegno attraverso la possibilità di discutere della propria azione con una persona qualificata. Non a caso nei documenti dell’Oecd si parla di “recognition”.
Le esperienze realizzate con numerosi docenti di tutti i livelli di scuola ci hanno consentito di verificare come tale riconoscimento debba essere realizzato in primo luogo dal dirigente scolastico, il quale può svolgere un ruolo fondamentale nell’autoriflessione del docente sulla propria attività. Autoriflessione che, come evidenziano gli studi della ricercatrice americana Darling-Hammond, non si fonda sui risultati di test e su procedure standardizzate, ma fa invece ricorso a modalità narrative, a scambi fondati sulla condivisione di obiettivi e non sull’espressione di valutazioni oggettive.
È a questo punto che manca la quarta informazione, che purtroppo temiamo non interverrà nel prossimo futuro: la ridefinizione delle attribuzioni del dirigente scolastico, scaricato degli adempimenti puramente amministrativi che lo obbligano a trascorrere la giornata chiuso nel proprio ufficio e tornato ad essere un leader educativo, che abbia il tempo di raccogliere osservazioni e informazioni sulla propria scuola per poterne discutere con i propri insegnanti a ragion veduta.
Ciò consentirebbe anche di chiudere il cerchio.
Non può essere infatti dovuto semplicemente al caso il fatto che l’ottima riuscita degli studenti finlandesi nelle prove del Pisa si accompagni all’assenza di strutture nazionali per la valutazione dei docenti e invece al ruolo del dirigente scolastico come leader pedagogico, responsabile degli insegnanti della propria scuola e delle misure per migliorarne la qualità, attraverso momenti di discussione in cui si valuta se gli insegnanti sono soddisfatti degli obiettivi raggiunti e si individuano i bisogni, in termini di sviluppo professionale, per l’anno successivo.