Il Tfa ordinario è partito: ma l’avvio è stato così disomogeneo e lo svolgimento in molti casi ancora così confuso, che sarebbe più opportuno parlare di un Tfa “straordinario”. L’ultimo paradosso è che, mentre in alcune università si sta già programmando l’esame abilitante per la fine di maggio, in altre non sono ancora stati nominati i tutor coordinatori. Il decreto, però, per il loro semiesonero ora c’è, e tutte le università dovrebbero allinearsi. Di queste anomalie si è reso conto anche il ministro Profumo che ha costituito un gruppo di lavoro per “raddrizzare la nave” e fare un po’ di ordine tra gli atenei. A onor del vero, non poche incertezze sono sorte proprio a causa del Miur, che non sempre ha governato a dovere l’imbarcazione che, senza capitano, ha navigato a vista, spesso zigzagando senza vela e senza rotta.
Esiste infatti una grande diversità nell’attuazione del Tfa, complice appunto la latitanza ministeriale: si tratta ora di remare il più possibile per far abilitare quanto prima i tirocinanti, che, in molti casi, oltre alla spesa per l’iscrizione, hanno rinunciato all’insegnamento per frequentare il Tfa. È perciò doverosa una particolare attenzione nei loro confronti, incastrati come sono in un meccanismo che rischia di stritolarli.
Però le questioni di cui vorremmo parlare non sono i ritardi e neppure le disfunzionalità organizzative (atenei che hanno richiesto il pagamento anticipato dell’iscrizione anche a corsisti che stavano attendendo l’esito in altre università, o che non hanno permesso di svolgere il tirocinio nelle scuole di servizio dei tirocinanti; calendari dei corsi che escono a goccia a goccia; corsisti che non sanno quali prove dovranno sostenere per il superamento degli esami…). Anche queste, sono conseguenze del sistema mal governato centralmente.
Vorremo riferirci, piuttosto, ad altri elementi, che non dipendono dal clima di “emergenza”, ma dalla visione generale che le università hanno del Tfa: ad esempio, si registrano ancora insegnamenti con un forte impianto accademico, che non rispondono alle reali esigenze dei tirocinanti. Non saranno certo di aiuto i corsi sulla cartografia antica, o sulla Rivoluzione francese, tanto interessanti per uno studente universitario, quanto inutili per un aspirante docente, che vorrebbe – semmai – vedere esempi di come si fa ad insegnare quei contenuti! D’altra parte il Dm 249/2010 è chiarissimo, richiedendo esplicitamente che gli insegnamenti disciplinari siano “svolti stabilendo una stretta relazione tra l’approccio disciplinare e l’approccio didattico” (art. 10 comma 3, lett. c). Analogo discorso per i corsi dell’area trasversale, dove si sono raccolti esempi di docenti che sono saliti in cattedra dichiarando il loro imbarazzo per non conoscere il senso del loro corso, o proponendo contenuti assolutamente slegati dalle questioni pratiche del fare scuola.
Non possiamo disconoscere le lodevolissime eccezioni, che per fortuna ci sono, rappresentate da quegli accademici che hanno proposto letture riutilizzabili in classe, esempi innovativi, metodi stuzzicanti. Proprio queste eccezioni dimostrano che è possibile impostare diversamente le lezioni, e che forse varrebbe la pena che gli atenei guardassero anche nell’ambito scolastico, perché molti docenti hanno acquisito competenze specifiche che potrebbero essere spese proprio in questi corsi.
Un’altra carenza all’interno dei Tfa è rappresentata dai laboratoridisciplinari e pedagogici-didattici, esplicitamente richiesti dal decreto (art. 10 comma 3 lett. c, lett. d). Spesso non sono stati attivati. Eppure i laboratori, quando bene condotti, insieme al tirocinio sono stati i momenti più apprezzati dai tirocinanti delle vecchie Ssis. Le figure più titolate a condurli potrebbero essere − se in possesso delle competenze necessarie − proprio i tutor coordinatori, perché il laboratorio deve avere un’impostazione fortemente attiva, capace di riprodurre il più possibile la didattica d’aula: questo è quello che chiedono i corsisti. Altrimenti si ricadrebbe in lezioni teoriche che risolleverebbero le critiche che hanno caratterizzato le precedenti Ssis.
Non pochi problemi sono derivati ai corsisti anche dalla ricerca dellescuole per espletare il tirocinio, anche perché non tutti i dirigenti sono disposti ad impegnare i loro docenti senza un riconoscimento economico: ricordiamo invece che il Dm 93/2012 (art 8, comma 3) prevede che gli atenei riconoscano “alle istituzioni scolastiche una quota del contributo di iscrizione ai relativi percorsi”. D’altra parte, il docente accogliente assume un onere non indifferente, che va giustamente ricompensato, soprattutto come riconoscimento di una competenza (quella di insegnare ad insegnare) che non è ancora stata debitamente accreditata.
Insomma, tutti gli esempi riportati (e molti altri potrebbero essere fatti) dimostrano − a nostro avviso − che ciò che c’è in ballo non è semplicemente una questione organizzativa, ma sostanziale: che cosa è o che cosa dovrebbe essere il Tirocinio formativo attivo? Ciò che gli atenei hanno proposto come corsi, laboratori e lezioni, fa venire a galla l’immagine implicita (e neppure tanto implicita) di Tfa, di cui le università si sentono garanti e responsabili. Un’immagine − però − che non soddisfa l’utenza e − crediamo − neppure la finalità stessa del Tfa, che non può essere progettato come un percorso universitario, ma che necessita dell’apporto vivo della scuola viva.
Un itinerario che andrebbe, perciò, costruito in modo paritetico tra scuola e accademia, come richiede il Decreto stesso: e non è un caso che i Consigli di corso di tirocinio (composti dai docenti universitari ma anche dai tutor coordinatori e dai dirigenti delle scuole e dai corsisti) spesso non sono stati convocati o sono stati attivati in molti casi solo per adempimenti burocratici, mentre risultano i luoghi deputati a scegliere quali insegnamenti offrire, quanti crediti riconoscere ad ognuno, a chi assegnarli.
Anche in questa circostanza, va ammesso che alcuni Atenei hanno dimostrato apertura nei confronti dei tutor coordinatori e di scuola, riconoscendone la funzione e accogliendo i loro pareri sullo svolgimento del tirocinio: altri hanno semplicemente messo a ratifica quanto deciso. Generalmente, comunque, non c’è stata una costruzione comune del progetto formativo da svolgere nelle scuole, che si sono trovate ad accogliere i corsisti senza poter intervenire sulla definizione del loro itinerario, come invece previsto per legge.
Sono tutte funzioni che, comunque, potrebbero essere ripristinate già dal prossimo ciclo del Tfa.
Ci sembra che non sia lontano dal vero un comunicato della Uil Scuola quando denuncia un “eccessivo peso nelle decisioni e nelle scelte affidato alle università”, come se la gestione − che ad esse viene riconosciuta dal Dm 249/2010 − coincidesse con la organizzazione e la progettazione di tutto il percorso. L’art. 10 comma 2 del predetto decreto stabilisce che il Tfa sia “istituito presso una facoltà di riferimento”, ma “istituire” non significa che sia progettato, articolato, definito dalle università.
Per questo non possiamo che condividere la speranza espressa su questo giornale da Fabrizio Foschi quando auspica per il prossimo anno un ripensamento dell’impianto, “che magari conferisca più importanza alle esperienze di tirocinio attivo nella scuola, senza nulla togliere alla verifica delle competenze, delle conoscenze e delle attitudini dei giovani insegnanti”.
L’apporto delle università è fondamentale e ineludibile, ma crediamo che si impari ad insegnare vedendo un altro insegnante esperto (un maestro) in azione, facendo esperienza con lui. È ciò che attestano anche molti studi internazionali ampiamente accreditati sull’apprendimento nella pratica, fino al riconoscimento di una “epistemologia della pratica”. Occorre perciò dare spazio al sapere professionale degli insegnanti, un sapere che andrebbe capitalizzato e riconosciuto.
Ci sorge a questo punto una domanda: se − da una parte − sono emerse così tante criticità nell’organizzazione attivata dalle università; se invece − dall’altra parte − vi sono così tanti docenti appassionati e competenti che vorrebbero condividere e camminare insieme ai giovani insegnanti; e se − infine − il cuore del Tfa è proprio il tirocinio cioè l’apprendimento sulla pratica: allora, non sono forse, tutti questi, segnali che occorre ripensare chi deve progettare, gestire e organizzare il Tfa?
Perché non affidare alle scuole e ai loro docenti − debitamente titolati − la formazione iniziale (con l’imprescindibile apporto dell’accademia), anche nell’ottica di una valorizzazione della autonomia delle scuole? Le esperienze internazionali ci dicono che la riflessione su “come” organizzare questo percorso è ancora aperta. Ma esistono molti esempi di Enti terzi non universitari, costituiti a questo scopo.
In un momento di crisi come l’attuale, è fondamentale riscoprire strade anche inedite, probabilmente più economiche e soprattutto più efficaci: perché sprecare questa grande possibilità?