Caro direttore,

Non voglio trasformare il dibattito sulle prove Invalsi in una sorta di tenzone personale tra me e il prof. Israel, anche perché su molti dei temi sollevati in questo nostro scambio ci sono numerose  altre persone meglio in grado del sottoscritto di intervenire. Mi sento però in dovere di precisare un paio di punti.



Il primo è prettamente istituzionale. Nell’assetto italiano, l’Invalsi è un ente di ricerca, non un “ufficio operativo” d’un ministero;  non è perciò né un ufficio sonnolento, del tipo burocratico-pacioso e quindi poco operativo che spesso tende a ricollegarsi col termine ministeriale, né l’iperattiva unità di stuntman per conto terzi, adombrata in un commento (di Vincenzo Pascuzzi) di supporto alle tesi del prof. Israel. 



Ente di ricerca è cosa diversa anche da “centro ideologico”; l’Invalsi è un ente di ricerca che opera tra innumerevoli problemi (in primis la precarietà di molti dei suoi ricercatori e dipendenti) e certamente non privo di difetti, ma che non intende sottrarsi alla valutazione dell’operato proprio e dei propri ricercatori e che vive dell’interlocuzione col mondo esterno sulle tematiche di cui si occupa. 

Questo vale sia per la costruzione delle prove, nei loro aspetti disciplinari e psicometrici, sia per l’utilizzo a fini analitici dei risultati delle stesse. Questi vengono oggi analizzati all’interno dell’Istituto (e con crescente spessore analitico, ché ogni anno si cerca di fare un piccolo passo in avanti, come si può vedere confrontando ad esempio il Rapporto sulle prove del luglio 2011 – e quello del luglio 2012) e vengono anche resi ampiamente disponibili al mondo della ricerca (oltre che alle singole scuole). 



È questa una prassi degli ultimi anni. Nei precedenti decenni l’Italia aveva invece tratto ben poco beneficio dalla partecipazione a pressoché tutte le principali indagini internazionali sugli apprendimenti; vi han contribuito tante cose, ma anche il fatto che i dati raccolti non solo non ritornavano alle singole scuole perché le indagini condotte erano solo di natura campionaria (che è la soluzione-involuzione da taluni anche oggi riproposta), ma neppure circolavano nel mondo accademico e della ricerca. Oggi l’Invalsi crede invece fortemente nell’apertura all’esterno: nelle scorse settimane si è ad esempio lanciato un bando d’idee per stimolare progetti di ricerca, una strategia che certo non è di chiusura autoreferenziale. 

Il secondo chiarimento è sui temi della “misurazione” e delle “competenze”. Il prof. Israel richiama un dibattito sulla rivista Scuola Democratica che lo aveva visto protagonista – assieme ad altri, con posizioni in vari casi ben diverse dalle sue. Aggiungerei che a livello internazionale molto vivace è oggi il dibattito sul ruolo e sulla distinzione tra skills cognitivi e non cognitivi.

Il dibattito internazionale però più che produrre una stasi delle applicazioni empiriche − attanagliati dal dubbio se esista o meno un metro universale definibile a-priori – sta semmai ampliando le stime di natura psicometrica a nuovi e più ambiziosi ambiti, il cosiddetto problem solving, ad esempio, già oggetto, anche in Italia, dell’indagine Pisa 2012. Gli sforzi sono poi nel migliorare gli strumenti di misurazione: la frontiera, verso cui anche Invalsi si sta muovendo e che sarà lo standard nell’indagine Pisa 2015 e che sarà anche sperimentato nelle prove che Invalsi già l’anno prossimo intende sviluppare per la V superiore, è nell’uso del computer, così da poter rendere adattivi e comunque più ricchi i test. 

Orbene, di fronte a questi sforzi e queste tendenze – a cui nel suo piccolo l’Invalsi partecipa − discettare se esista o meno un metro assoluto di un oggetto chiaramente definibile di nome competenze mi pare francamente poco utile. Certo, un metro assoluto non esiste e delle competenze si possono e si debbono dare tantissime definizioni, a seconda degli scopi degli esercizi di misurazione. Le rilevazioni standardizzate sugli apprendimenti predisposte da Invalsi non pretendono perciò l’impossibile, di essere il metro universale di tutto quanto uno studente dovrebbe sapere. Quel che si cerca di misurare è però chiaramente definito ex ante – nei Quadri di riferimento, che a loro volta hanno come riferimento le Indicazioni nazionali per il curricolo e non sono quindi frutto del delirio di onnipotenza di qualche tecnocrate – e il “metro” è tarato, su base psicometrica, sull’intera popolazione degli studenti italiani anziché nel giudizio soggettivo del singolo docente (riferito al suo piccolo gruppo di studenti). 

Questa valenza comparativa – che non hanno invece i voti attributi agli studenti nelle scuole italiane, che peraltro sono in media correlati con i risultati delle prove Invalsi all’interno di ciascuna classe, ma non necessariamente tra le diverse classi – e la natura assolutamente non nozionistica delle prove – a cui non ci si può allenare con esercizi di tipo esclusivamente mnemonico – sono il pregio, non piccolo, delle rilevazioni effettuate dall’Invalsi e restituite a tutte le scuole come strumento di lavoro e materiale di riflessione. 

Si tratta di pregi non piccoli, ma sia chiaro che Invalsi non pensa che si debba farne l’ombelico del mondo. Nessuno pensa infatti che basti guardare ai risultati delle prove Invalsi per individuare, e tanto meno per implementare, adeguati interventi di miglioramento della e nella singola scuola: nel costituendo Sistema Nazionale di Valutazione le prove sono solo uno stimolo, e non l’unico, d’un processo di autovalutazione e di eventuale valutazione esterna delle singole scuole che dovrà ragionare sul concreto modus operandi e non solo su questo o quel risultato della singola scuola; in ogni caso, per meglio comparare i risultati delle prove tra le diverse scuole già da questo anno si sono iniziate ad adoperare le informazioni, raccolte su base anonima, sul background socioculturale degli studenti e, in futuro, ci si concentrerà sull’evoluzione nel tempo degli apprendimenti. 

Tantomeno si immagina che le prove Invalsi debbano sostituire le normali valutazioni dei singoli studenti, di tipo più complessivo, effettuate dai docenti: le prove considerano solo alcuni aspetti ed ambiti (la comprensione della lettura ma non la produzione di testi, ad esempio); basate ancora su strumenti cartacei, e quindi ben lontane da un modello adattivo, le prove hanno necessariamente una durata breve e contengono domande sia difficili che molto facili, atte a “coprire” sia i più bravi che i meno bravi, e  non approfondiscono l’analisi del puntuale livello di abilità del singolo studente. Anche per questi motivi l’Invalsi non pubblica i risultati delle singole scuole: si vuole evitare di dare eccessiva enfasi a quel che si misura rispetto al tanto che non si misura.

Quindi sappiamo che non esiste il “metro” universale. Più che discettare sui massimi sistemi, crediamo utile discutere su cosa migliorare, nei contenuti e negli utilizzi delle rilevazioni standardizzate degli apprendimenti. Ci piacerebbe che su questo − sul come andare oltre le peraltro non poche “novità” già messe in cantiere – si discutesse e si criticasse l’operato dell’Istituto.