È iniziato il rush finale. E si verificano puntualmente, come ogni anno, dei fenomeni strani: studenti che magicamente, nell’ultimo mese, ritrovano l’interesse per la scuola e vorrebbero dimostrare chissà cosa, dopo essere stati per mesi e mesi dei desaparecidos; genitori completamente assenti che, improvvisamente, s’interessano alla sorte dei loro figli e che altrettanto improvvisamente scoprono che i loro pargoli vanno male in una o più materie e che magari rischiano grosso; certificati medici che spuntano tutti insieme in una volta per giustificare, o quanto meno rendere più accettabili, assenze prolungate.



Insomma, capita di tutto di più. È una specie di mobbing sui docenti, che si trasformano in strane divinità potenti e lunatiche, che stringono in pugno il destino di tanti poveri giovani innocenti. E il mobbing raggiunge anche i piani alti, le presidenze, e i dirigenti scolastici si innervosiscono e se la prendono con i docenti, che (cambiando il punto di vista) si trasformano in un attimo in degli incapaci, dei sadici, degli educatori inadatti al mestiere. Si pretendono reports, lettere di avviso alle famiglie, come se non bastassero le pagelle, i voti riportati on line e consultabili sul sito della scuola, i colloqui con i genitori.



E come se non bastasse, come se non ci fosse lo stress di correggere compiti, verificare, fare le medie, interrogare e portare avanti anche un po’ di programma, questo è il momento per gli esami di coscienza, per i mea culpa di tutta la classe docente. Quando si va verso le bocciature, la colpa è immancabilmente sempre e solo della scuola (cioè di noi professori), che non sa insegnare, non sa coinvolgere, non sa far crescere.

La scuola? Quale scuola? Ripercorro questo anno scolastico: occupazioni, vacanze di Natale, pausa didattica, chiusura per elezioni politiche, vacanze di Pasqua, gite e scambi con l’estero, ponti (lunghissimo quello del 25 aprile), nuova chiusura per elezioni amministrative, probabile ballottaggio compreso. Ci aggiungo le assemblee degli studenti (non se ne è saltata neanche una), i “collettivi” di classe, le uscite per l’orientamento universitario, le conferenze di tutti i tipi… e ho sicuramente dimenticato qualcosa. Ripercorrendo così l’anno scolastico, noto che per prima cosa è mancata la continuità didattica: c’è stata invece una continua frammentazione, un continuo fermarsi e ricominciare da capo, in modo sempre molto doloroso e sempre più faticoso. Di sicuro è proprio questa una delle principali cause di molti insuccessi.



Gianni Mereghetti, in un articolo su queste pagine, parla di una scuola che “fa crescere solo chi sa fare da sé”. Mi sembra un giudizio ingeneroso. La mia scuola si è letteralmente svenata per mettere in atto dei corsi di recupero che hanno recuperato molto poco (in questo Mereghetti ha ragione: “rifare male al pomeriggio quello che si fa la mattina non serve a nulla”). 

Ci siamo spesi per un 30 per cento degli studenti del nostro istituto. L’altro 70 è rimasto al palo. Già, perché siamo entrati in “pausa didattica” per aiutare i ragazzi con debiti. “Pausa didattica”… una definizione che andrebbe vietata in tutte le scuole del Regno. Strano che i genitori (quelli che entrano in gioco a maggio) non si facciano mai questa domanda: ma che si fa a scuola durante una “pausa didattica”? Strano che nessuno abbia la curiosità di andare a verificare cosa vuol dire questo singolare ossimoro. Comunque, la famosa pausa didattica si è succhiata tutte le risorse. I corsi di approfondimento, i progetti, la valorizzazione delle eccellenze… è saltato tutto. Come si fa a dire che le scuole non fanno niente? Fanno tanto, invece, ma male. O forse non fanno quello che si dovrebbe veramente fare.

E qui mi trovo fondamentalmente d’accordo con Mereghetti: “La soluzione non è un corso di recupero, ma un faccia a faccia con chi è in difficoltà”. Perché chi è in difficoltà spesso e volentieri è uno che non ha la famiglia che lo sostiene, che lo segue, che lo educa. È il figlio di genitori poco presenti, poco attenti, troppo compiacenti. È uno studente che studia col computer acceso, con la pagina di Facebook sempre aperta. Non ha motivazioni, non ha costanza, non ha neanche grande stima di sé. Nessuno gli ha fatto capire che quel suo stare a scuola c’entra con la sua vita, che non è una parentesi, o una condanna. Quello che va male è spesso un alienato. E noi pretendiamo di aiutare uno così con un breve, ma costosissimo, “corso di recupero”? Ma ci crediamo veramente? Ma questi corsi li facciamo perché siamo convinti di risolvere il problema, o solo perché così ci mettiamo a posto col ministero e con le famiglie?

I ragazzi di oggi hanno bisogno di qualcuno che si coinvolga con loro, che stia con loro per il loro bene, per una costruzione. Non hai la presenza dei genitori? Io sarò quella presenza. Non hai amici validi? Io sarò quell’amico. Non hai una compagnia con la quale tutto sarebbe più bello e più interessante? Io sarò quella compagnia. Ma questo, tutto questo, si può fare a scuola? Si può fare a orario? Si può fare a partire da criteri sindacali? La questione, e la sfida, è tutta qui.