Il nozionismo è attaccato da tutti ma in realtà si espande di nascosto perché non può morire e non ha, per ora, alternative. Può essere normato, precisato, integrato, ma deve essere legittimato culturalmente e solo così ridefinito assieme alle altre necessità del lavoro scolastico.
Sono decenni che assistiamo a tentativi (verbali) di riorganizzare tutta la scuola secondo un nuovo e salvifico concetto. Negli anni 60 iniziò la lotta al bieco nozionismo, con la prospettiva salvifica della formazione dell’uomo critico e socialmente sensibile. Si creò una contrapposizione tra sapere disciplinare e comprensione della realtà. Così uscirono dalle scuole legioni di “spaccapelisti” (quelli che su ogni questione sollevavano dibattiti) sempre più ignoranti e magari saccenti. Intendiamoci, il grosso degli alunni, dei genitori e degli insegnanti ha sempre pensato che essere ben preparato nelle varie discipline fosse un buon segno ed una buona meta, ma stavano bene attenti a non assumere lo spaventoso titolo di “secchione”, o di “insegnante tradizionale”.
Negli anni 70 ci fu un parziale arretramento e la vulgata si attestò nuovamente contro il bieco sapere nozionistico, ma con l’obiettivo del saper fare, e sulla personalizzazione dell’apprendimento.
All’inizio degli anni 90 per un attimo sembrò profilarsi la formazione dell’identità di genere come fondamento del lavoro scolastico a cui, da noi, la valenza educativa e formativa viene da tutti assegnata come prioritaria, assolutamente prioritaria, a volte esclusiva. Oggi va di moda (ma non può essere di massa) lo studente giramondo che è in linea con l’identità mondialista, gradita sia al nostro mondialismo cattolico sia a quello liberale, sia soprattutto alla voglia degli alunni e dei docenti di vincere la noia mortale della routine scolastica nostrana.
“Purtroppo”, nel mondo, tutti gli analisti controllano e confrontano dati sull’apprendimento e sullo sbocco professionale dei percorsi scolastici. E così siamo sotto la media Ocse in quasi tutto. Certo se il clima delle nostre scuole fosse sereno, luminoso, partecipato, sano, attivo, serio ed anche allegro potremmo ignorare i confronti internazionali. Invece nelle nostre scuole, fin dalla prima elementare, sono in continuo aumento i problemi di governo delle classi, di gestione degli alunni problematici, i crescenti conflitti orizzontali e verticali, l’ansia da prestazione, gli stati ansioso-depressivi sia negli alunni che nei docenti. E su tutti pesa il giogo del curricolo gigantesco di 1000 ore annue unico in Europa. Ma permane lamancanza di idee riorganizzatrici vere e realistiche e rispunta sempre la tentazione di far uscire dal cappello il nuovo concetto salvifico, il nuovo obiettivo generale.
La demonizzazione fatta per ragioni politiche dell’apprendimento tradizionale, basato sulla classica lezione a classe intera seguita dalle interrogazioni e dal compito in classe, è stata tale da oscurare una verità elementare: nella scuola di oggi non possiamo eliminare il lavoro d’aula a classe intera. Il lavoro tradizionale per mille motivi resta ancora necessario ed utile seppure con i suoi limiti, il maggiore dei quali è la rigidità e la scarsa personalizzazione dell’apprendimento a fronte di alunni molto diversi nella classe. Ma Il lavoro didattico su piccoli gruppi, quello mirato anche su singoli e tutte le altre forme di didattica innovativa ormai consolidate ed esaltate (a parole), relative alla personalizzazione dell’apprendimento, in realtà ristagnano come tutto il resto.
L’antinozionismo inoltre ha imposto un’enfasi eccessiva e collegamenti meccanici, a volte astrusi, sulla relazione tra sapere e saper fare, tra conoscenze e competenze, tra bagaglio culturale necessario per il futuro ed attualizzazione dell’apprendimento.
Ancora una volta l’estremizzazione, in presenza dell’inettitudine organizzativa dei vertici della scuola e del crollo della qualità dei docenti, ha prodotto in basso, negli istituti scolastici, antitesi paralizzanti e fatto sì che si sviluppi − ma nell’ombra, e con un senso vago di inquietudine e in certi casi di vergogna dei docenti − ciò che sembrerebbe fuori moda, il “nozionismo più bieco”, magari mascherato dal… computer.
La destinazione di una quota consistente del curricolo a stages diluiti in tutto il corso dell’anno, ad esempio, non decolla. E nemmeno un contrasto vero e forte, con metodologie ben note in tutta Europa, alla progressiva e da noi disperata licealizzazione.
Certo, questo ritorno al nozionismo nella scuola avviene oggi (ma fino a quando?) nascostamente, ma quasi a furor (furorino, silenzio assenso) di popolo, dopo l’ubriacatura pluridecennale di ricerche infinite e di viaggi cosmici senza ritorno. Come al solito tutto avviene fuori da una reale capacità di governo della scuola, come moda, o come alternativa allo sfinimento, come tendenza dal basso o suggestione gratuita dall’alto o entrambe le cose insieme.
Non esiste ancora una definizione, se non del tutto generica, delle conoscenze e competenze minime da acquisire da parte degli alunni (e da erogare, accertare e quindi certificare da parte dei docenti) a livello nazionale per le varie annualità scolastiche e per i vari ordini di scuola. Da qualche anno con Invalsi e continue precisazioni e variazioni dei programmi il ministero cerca di farlo, ma si avanza poco e le polemiche sono infinite.
Le materie su cui si tenta di aprire una precisazione ed un accertamento più stringenti, con risultati ancora nulli, sono italiano, matematica ed inglese. La mia tesi è che il curricolo nazionale obbligatorio dovrebbe concentrarsi su queste materie lasciando alle aree territoriali ed alle singole scuole l’offerta formativa aggiuntiva che per alunni e famiglie dovrebbe essere opzionale.
Quantificando su base settimanale: 15 ore riservate al curricolo nazionale minimo obbligatorio con annessa certificazione dovrebbero bastare. Vuol dire 3 ore al giorno per 5 giorni. La sostenibilità da parte degli alunni può arrivare massimo a 4 ore al giorno obbligatorie ma non di più.
Nelle secondarie superiori la relazione tra tempo totale obbligatorio, minimi nazionali, le tre competenze base e l’indirizzo andrebbe definita caso per caso. Nei primo otto anni di scuola le 20 ore settimanali obbligatorie potrebbero articolarsi opportunamente con grande flessibilità, regione per regione e scuola per scuola intorno al curricolo minimo nazionale di 15 ore settimanali.
A questo punto alcuni tra gli ansiosi ed i faziosi potrebbero dare in escandescenze. Infatti 700 ore annue di curricolo sembrerebbero loro mostruose, invece sono mostruose le mattine di 6 ore consecutive in vigore da noi di puro tempo aula. Da noi si viaggia quasi al doppio della mia proposta.
Per fortuna esistono in Europa sistemi scolastici con i volumi che piacciono a me. E funzionano molto bene, sia per la qualità dell’apprendimento che per il clima generale di scuola, dove l’ansia da prestazione ormai endemica che c’è da noi è inimmaginabile. Ad esempio, nel sistema danese il monte ore annuo obbligatorio per i curricoli degli alunni, nei 12 anni di scuola che precedono l’università, varia dalle 600 alle 660 ore, che significa dalle 18 alle 20 ore settimanali. Inoltre ogni ora di scuola è formata da 45 minuti di lavoro didattico e da 15 minuti di intervallo ritualizzato con campanella che suona.
Ebbene, nonostante lo sdegno, sempre più flebile avendo ceduto da anni a tutte le mostruosità sindacali, dei “difensori del sapere”, vista la condizione giovanile attuale, viste le specificità del lavoro scolastico che prevede la rielaborazione personale ed i compiti a casa, visto l’affollarsi nella mente dei nostri bambini e ragazzi di miliardi di stimoli provenienti da mille fonti, viene spontaneo alla mente un canto: ”se 4 ore vi sembran poche provate voi ad imparar…”. Lo dico anche alla luce dei centinaia di convegni degli adulti a cui ho partecipato e della mia attenzione alla tempistica reale degli stessi.