Un referendum sbagliato, a cominciare dal quesito. Il 26 maggio i cittadini di Bologna sono chiamati al voto per decidere se mantenere o abrogare la convenzione tra Comune e scuole paritarie per l’infanzia, che ricevono dall’amministrazione comunale un milione di euro l’anno. Ai bolognesi si chiede se quelle risorse vogliono utilizzarle – voto A – “per le scuole comunali e statali” oppure – voto B – “per le scuole paritarie private”. Il sindaco Virginio Merola (Pd) ha fatto una scelta di campo ben precisa ed è intenzionato a difendere la convenzione ad ogni costo. Sia per il bene dei cittadini, sia contro chi “pensa di approfittare di questa occasione per colpire ulteriormente il Partito democratico”.
Sindaco, cominciamo dal quesito.
Fa confusione perché crea la falsa informazione che esisterebbero delle scuole private alle quali vengono dati i soldi di tutti. Non è così. Stiamo parlando di scuole paritarie private, esattamente come sono paritarie le scuole comunali. Entrambe riconosciute da una legge del 2000, la n. 62, voluta da Luigi Berlinguer.
Il Comune invece che cosa fa?
L’amministrazione dà un contributo alle scuole paritarie private che accettano di sottoscrivere una convenzione (esistente dal 1995, ndr) con il comune di Bologna, impegnandosi a rispettare i criteri di qualità didattica e di accesso che si applicano in tutte le scuole di Bologna.
Lei dunque non dà quei soldi alle paritarie, però ne priva in qualche modo le scuole comunali.
No. A Bologna il 60 per cento delle scuole dell’infanzia sono comunali; il 20 per cento sono paritarie private, e solo il 17 per cento sono statali. È evidente che questo sistema pubblico, come prevede la legge 62/2000, poggia su tre gambe, di cui una però è molto corta ed è quella dello Stato.
Quindi?
Invece di chiedere tutti insieme che lo Stato faccia la sua parte, aumentando le sezioni di scuola dell’infanzia statale o riconoscendo maggiori fondi al Comune di Bologna, si fa una lotta tra poveri per togliere i fondi alle scuole paritarie private. Se, grazie alla convenzione con le paritarie private, noi assicuriamo al costo di 1 milione un sostegno a più di 1.700 bambini, a parità di spesa riusciremmo al massimo ad aprire quattro sezioni di scuola dell’infanzia comunale, dando risposta ad appena 150 bambini.
In altri termini ad essere inadempiente è lo Stato?
È fuori discussione. Tenga conto che in Italia il 61 per cento delle scuole d’infanzia è statale, il 9 per cento è comunale e il 30 per cento è paritario privato. A Bologna invece il rapporto è rovesciato e questo è un danno per tutti. La latitanza dello Stato dovrebbe unirci come comunità perché venga riconosciuto lo sforzo della città, invece ci si vuol dividere e spartirsi i pochi soldi che sono rimasti. Tutto questo suscita in me tanta amarezza.
Perché secondo lei i referendari si comportano come se la legge sulla parità scolastica non esistesse?
È segno che un grande passaggio culturale non è stato metabolizzato. Inoltre c’è chi non vuole convincersi che in questo paese una legge è costituzionale fino a quando la Consulta non ne dichiara l’incostituzionalità; e per la legge 62 ciò non è mai avvenuto. Al tempo stesso si pretende che attraverso un referendum consultivo si possa decidere della costituzionalità di una legge. È un atteggiamento aberrante e antidemocratico.
I referendari hanno fatto dell’articolo 33 della Costituzione la loro bandiera. Cosa risponde?
È un richiamo di parte non suffragato dai fatti. Ci si ostina a far confusione sul concetto di scuola pubblica, che nella nostra città − da anni − non è fatta solo da dipendenti del comune o da dipendenti dello Stato. Se un Comune finanzia e sostiene attività che sono di servizio pubblico, queste sono a tutti gli effetti pubbliche, indipendentemente dall’essere svolte da un dipendente comunale, dal dipendente di una cooperativa o di un’associazione no profit.
Ora critica anche la scuola pubblica?
No, critico la visione vecchia e statalista del concetto di servizio pubblico. Trovo che aiutare i cittadini che si mettono insieme per sostenere un servizio sia la cosa più sensata per il bene comune della città e delle sue comunità.
La accusano di usare la sussidiarietà per mascherare una politica di destra, svendendo l’istruzione pubblica al mercato.
Allora è di destra anche la Costituzione, che prevede il principio di sussidiarietà all’articolo 118. Dire che la sussidiarietà coincide con la privatizzazione è voler fare una confusione incredibile, perché sussidiarietà significa semplicemente che le istituzioni devono sostenere i cittadini che si auto organizzano per svolgere un servizio di interesse generale.
La convenzione dunque non ha colore politico?
Se proprio debbo schierarmi, penso che la convenzione sia autenticamente di sinistra, perché in tutta Europa, anche dove governa la sinistra europeista, questa è la politica adottata. Andare sul mercato è dire: «Cittadini, arrangiatevi», invece tenere insieme la pluralità della città, il privato non profit con lo Stato, è difendere la realtà e l’interesse delle nostre comunità.
Secondo lei che parte ha giocato il Movimento 5 Stelle in questa vicenda?
M5S ha mostrato grande capacità di catalizzare tutte le proteste e le arrabbiature, anche giustificate, dei cittadini. Sta di fatto che il M5S là dove governa, per esempio a Parma, ha approvato le stesse delibere che approva il comune di Bologna per il sostegno delle scuole paritarie private. Perché non lo dicono? In ogni caso, ha introdotto un principio pericoloso: che le regole in democrazia si discutono a colpi di mail e di pronunciamenti dei cittadini.
Invece?
Il referendum è consultivo, invece lo si sta facendo passare come se fosse un referendum abrogativo o decisionale, col risultato che si sta alimentando in città l’idea che votando al referendum si possa imporre la linea al consiglio comunale o alla giunta. Non è così. Il sottoscritto si è presentato alle elezioni ed è stato eletto direttamente dai cittadini sulla base anche della volontà di mantenere il sistema integrato; ed è quello che intendo fare.
È una bella sfida anche per il Pd.
Il sistema integrato esiste a Bologna dal 1995 e il Pd lo ha sempre sostenuto. La sussidiarietà è nel manifesto dei valori del Partito democratico.
Crede che il suo partito abbia fatto tutto il possibile per difendere la sua scelta?
Se da vent’anni c’è ancora questa confusione tra i cittadini, è evidente che c’è un ritardo culturale anche da parte del Pd. Ciononostante il Partito democratico si è impegnato molto a difesa del sistema in vigore a Bologna e io penso che sia stata una scelta saggia, perché questa soluzione garantisce il futuro del nostro sistema educativo.
«Ritardo culturale» sono parole forti. Il Pd ha commesso degli errori?
L’errore lo stanno commettendo quelli che pensano di approfittare di questa occasione per colpire ulteriormente il Partito democratico. Prendiamo atto che c’è chi usa ogni mezzo per arrivare a questo obiettivo. La realtà è che si vuole utilizzare il referendum per dare vita nel nostro paese ad una nuova sinistra. Ma prima viene Bologna, vengono i nostri bambini e le nostre bambine. Questo è un sistema pubblico, e non permetterò che siano strumentalizzati i nostri cittadini per fini politici di parte.
(Federico Ferraù)