Non è lecito che nel Politecnico di Milano si insegni in inglese a studenti delle lauree magistrali e dei dottorati. Questo è il responso emesso dal Tribunale, cui si sono rivolti studiosi e docenti contrari alla delibera del sommo Istituto meneghino. Gran gioia viene espressa dai guelfi: avrebbero alcuni dichiarato che “la cultura è salva”.
Obiettano i ghibellini: ma non bastano tredici anni di scuola (tra la primaria e la superiore) per far apprendere la lingua italiana e i fondamenti della sua cultura letteraria? Davvero la cultura si salva vietando l’insegnamento in inglese nelle lauree di secondo livello al Politecnico di Milano? (Su questo, hanno qualche ragione: può darsi che, per “salvare la cultura”, sia utile controllare la qualità dell’apprendimento a scuola).
Prontamente ribattono i guelfi: volete privare l’italiano della sua capacità espressiva e contribuirete alla colonizzazione culturale anglo-americana. Hanno facile gioco, i ghibellini, a far notare che, da metà del Novecento, è la realtà di questo mondo a privilegiare l’inglese in tanti campi delle scienze e delle tecniche. Non si tratta di umiliare l’italiano, ma di favorire un profilo internazionale dell’ateneo. D’altronde, in molti corsi di laurea, da anni, si adottano materiali didattici in inglese – persino le slides usate a lezione pullulano di termini anglo-americani. Adottare ufficialmente l’inglese è dunque in armonia con questa tendenza generale.
Replica guelfa: davvero i vostri docenti e gli studenti sono preparati all’anglofonia? Se volete costruire un ambiente internazionale, dovete usare l’inglese per davvero, non “all’italiana”. Altrimenti produrrete solo una nuova varietà di inglese che sarà comprensibile agli italiani (e non a tutti), ma non servirà nel contesto internazionale.
Obiezione dei ghibellini: vogliamo un ambiente internazionale, fatto da docenti e studenti di ogni parte del globo. Inoltre, i nostri docenti italiani sono attivi all’estero da anni, usano l’inglese e si fanno capire benissimo. Abbiamo contatti istituzionali con politecnici di tutto il mondo e i nostri studenti ne beneficiano.
I guelfi insistono su un punto, che per loro è fondamentale: il Politecnico non può obbligare a usare l’inglese; bisogna invece favorire l’italiano. Inoltre, non tutte le materie del Politecnico parlano esclusivamente in inglese: ad Architettura non è come a Ingegneria, e l’ingegneria civile non è come quella elettronica. Non solo la storia dell’arte, ma anche le tecniche di costruzione degli edifici in generale si possono apprendere senza l’inglese.
Protestano i ghibellini: gran parte dei giovani ingegneri salutano con favore la nostra decisione; poiché il lavoro lo troveranno in giro per il mondo, sono ben disposti a imparare ciò che è più utile, tanto meglio se anche i docenti sono non italiani e parlano inglese.
Voi invece volete che i nostri studenti restino qui, ad arrangiarsi facendo lavori di scarsa specializzazione. Per emergere, serve esperienza all’estero; se si continua così, la potrà fare chi avrà imparato l’inglese da solo, con i propri soldi. Si arrangerà, come è sempre avvenuto nella storia d’Italia.
Peraltro, il dibattito è più articolato perché le due fazioni sono composite: fra i guelfi, vi sono anglofili consapevoli della necessità di promuovere l’uso dell’inglese; e molti ghibellini coltivano con passione il gusto per la letteratura e le arti d’Italia. La contesa non si può ridurre a “cultura italiana contro imperialismo anglo-americano”. A ben vedere, la discordia è sul fine. Gli uni sono disposti ad accettare l’uso dell’inglese, purché l’italiano non ne risulti svantaggiato: vogliono favorire un “bilinguismo”, di non facile attuazione. Gli altri temono di perdere terreno nel mondo e sostengono l’uso dell’inglese anche nell’apprendimento.
La tenzone continua, e andrà avanti per i prossimi decenni. Spettatori spassionati ritengono che la lingua materna sia fondamentale, ai giovani, per imparare a ragionare e a comprendere la realtà. Invece, per “capire in inglese” hanno bisogno di un serio addestramento, che i docenti possiedono, dopo anni e anni di lavoro nel loro settore, ma che gli studenti assimilano a fatica, se li si costringe a fare salti di qualità in brevissimo tempo. Già nelle lauree triennali devono recuperare il tempo perso nelle superiori…