La battaglia referendaria di Bologna si è conclusa. Il 28,7% dei bolognesi è andato a votare; di questi, il 41% si è espresso per il mantenimento della convenzione comunale con le scuole private paritarie, il 59% ha invece votato per la sua soppressione. Il referendum era stato voluto dal Comitato Articolo 33, con l’appoggio di Sel, M5S, Cobas, Uaar, Fiom e altri gruppi e associazioni per togliere alle private paritarie i soldi che, secondo i referendari, devono essere destinati solo alle scuole statali e comunali, non a quelle private. Stefano Zamagni, economista e primo firmatario dell’appello a difesa del sistema integrato, ha una nuova proposta.
Professore, avete perso.
Neanche per sogno. Il problema è che i referendari continuano a leggere l’esito di questo referendum con l’occhiale tipico delle elezioni politico-amministrative, ma questo vuol dire continuare a disinformare la gente. Mentre nel voto politico o amministrativo chi ottiene un voto in più ha vinto, questo era un referendum consultivo e quindi chi lo ha indetto, per dire di aver vinto, doveva stravincere.
Si spieghi.
Chi convoca un referendum, per ottenere il risultato desiderato deve poter dire che almeno il 60-70% dei cittadini è stato favorevole e ha espresso il suo voto secondo l’intenzione referendaria. Invece, si è visto che solo il 16,8% dei bolognesi è per abrogare la convenzione. Come si fa a dire che hanno vinto i referendari? L’unica vera vittoria dei referendari è stata quella di far spendere alle casse comunali mezzo milione di euro.
Ora non dirà che a vincere siete stati voi.
No; è chiaro che neppure chi sosteneva il voto B può dire di avere vinto. La percentuale di voti A sul totale di votanti dà ragione ai referendari, ma è una vittoria? La mia risposta è che nessuno ha vinto per due ragioni. La prima è che il quesito era formulato in maniera tale da disorientare i cittadini bolognesi. La seconda è che quando un 72% non va a votare, vuol dire che non sente la questione posta oppure che essa non è accettabile. Se quel 72% fosse andato a votare, avrebbe scelto A o B?
Direi che certamente non avrebbe votato A.
Bravo. Infatti, chi voleva votare A è andato sicuramente a votare. Ciò vuol dire che i bolognesi non si sono riconosciuti in questo referendum pensando che non fosse lo strumento valido, in senso democratico, per affrontare temi come quello in questione. Chi non è andato a votare non era d’accordo con A, ma soprattutto non era d’accordo con la richiesta di referendum. Ecco perché i referendari possono dire di aver avuto più voti degli altri, ma non di avere vinto.
Prima del 26 maggio lei ha detto che dopo il voto si sarebbe dovuto in ogni caso rimettere mano alla convenzione. Perché?
Quella convenzione è certamente perfettibile. In realtà, io penso che valga la pena di passare ai voucher, cioè dare alle famiglie un buono di un certo valore per consentire loro di scegliere la scuola in cui mandare i loro figli.
Cosa cambierebbe?
Finora andava così: ogni anno il Comune faceva l’accordo con la Fism (Federazione italiana scuole materne) nel quale fissava i parametri e le regole, dopo di che le singole scuole andavano a beneficiare, in base ai bambini che ospitavano, dei fondi assegnati. In altre parole, fino ad ora il meccanismo finanziava i soggetti di offerta. Con il voucher invece si finanziano i soggetti della domanda, cioè le famiglie. Dopo un voto che non vede né vincitori né vinti, una scelta di questo tipo sarebbe un vero balzo in avanti. Chi conosce i miei scritti sa che propongo questo sistema almeno da dieci anni.
Dopo il voto di domenica la parità scolastica in Italia è più debole o più forte?
Il problema è che la legge Berlinguer (62/2000, ndr) ha significato molto, ma non ha affrontato il nodo dei finanziamenti. Essa dice: le scuole a gestione privata che rispettano certe caratteristiche sono paritarie. Bene, però la vera parità è quando si passa dalla libertà di scelta alla libertà di poter scegliere. Non basta dire: «siete liberi di scegliere», occorre dare alle famiglie la possibilità di poterlo fare. Diciamo che è una legge attuata al 60%. Le manca il restante 40.
Quindi il referendum di Bologna potrebbe essere l’occasione buona per completare la legge?
Sì, perché l’esito dimostra che la situazione attuale scontenta un po’ tutti: gli statalisti, che vorrebbero togliere tutto; ma anche coloro che credono nella sussidiarietà, perché certamente dà loro qualcosa, ma non abbastanza per poter affermare appieno lo stesso principio di sussidiarietà. Se una legge di parità deve dare una possibilità effettiva di scelta, finanziare la domanda è secondo me la via maestra.
Stefano Rodotà e Stefano Zamagni hanno diviso la città.
Rodotà voleva fare il presidente della Repubblica, ma si è visto che solo il 16,8% dei bolognesi la pensa come lui…
(Federico Ferraù)