Con la Risoluzione n. 1904 del 4 ottobre 2012, il Consiglio d’Europa ha ribadito l’affermazione del principio su cui si fonda il sistema educativo dei Paesi membri, almeno sul piano dei valori: il diritto all’istruzione è un diritto umano fondamentale per lo sviluppo dell’individuo e della società.
Anche in Italia, finalmente, se ne torna a parlare, sia pure in un contesto contorto e distorto da pregiudizi ideologici, come ha ben scritto Antonio Polito a più riprese sulle pagine del Corriere della Sera commentando il referendum consultivo di Bologna che ha visto la scuola italiana ostaggio di posizioni di parte.
Diciamo subito in maniera esplicita che il risultato di domenica scorsa (28% degli elettori aventi diritto sono andati a votare, di cui il 59% ha votato A, il 41% B) rappresenta a mio giudizio un tentativo fuorviante e ideologico che ha visto protagonisti i suoi promotori nell’azione di voto – come dimostrato dalla bassa affluenza dei votanti – e grandi esclusi i cittadini che hanno implicitamente premiato il sistema integrato vigente.
Grave è che una minoranza vincente sia riuscita apparentemente ad affermare i propri pur legittimi diritti su una maggioranza silente, ma non per questo meno direttamente coinvolta nel processo di educazione e di istruzione dei propri figli e che ha implicitamente dichiarato valido il sistema integrato esistente e ben funzionante da quasi vent’anni a Bologna (dal 1994).
Il Paese ha bisogno di una scuola libera, inclusiva per quantità e competitiva per qualità a livello nazionale e internazionale. Per ottenerla dobbiamo ripartire dai principi fondamentali, nel rispetto del dettato costituzionale e del corretto esercizio del dovere educativo da parte di ogni Stato membro.
L’art. 2 del Protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha disegnato il contesto politico e culturale di questo principio orientando i governi nazionali a una cultura del pluralismo istituzionale e della libertà di scelta educativa. Ma non tutti gli Stati membri hanno favorito politiche coerenti ed efficaci. L’Italia ne è un esempio lampante.
La legge Berlinguer (10 marzo 2000 n. 62), a buona memoria della sinistra abrogativa di oggi, ha riconosciuto la parità scolastica degli istituti e delle esperienze didattiche presenti nel Paese sul piano giuridico (sulla base dell’art. 1: “il sistema nazionale di istruzione (…) è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali”) assegnando la giusta accezione al termine “pubblico” nel campo dell’istruzione. La scuola è pubblica non perché gestita dallo Stato, ma perché depositaria e dispensatrice di un bene comune e collettivo.
Tuttavia, solo l’applicazione del principio di sussidiarietà al mondo della scuola potrà trasformare l’enunciazione di un principio teorico in quella cultura e quella prassi del pluralismo educativo e formativo che una società avanzata ormai richiede e, per ceti versi, impone.
Ciò significa, nel concreto: concedere maggiore autonomia finanziaria agli istituti scolastici, rivisitare il sistema di finanziamento e di contribuzione fiscale e permettere alle famiglie di scegliere a chi destinare le proprie risorse per la formazione dei propri figli, ispirandosi ai principi di libertà di coscienza, di orientamento culturale e filosofico e di ricerca del miglior modello educativo possibile. Allo stato attuale, le famiglie italiane che scelgono una scuola paritaria pagano due volte: la retta prevista e le tasse già versate nella fiscalità generale.
Sarebbe un’occasione sprecata se il risultato del referendum di Bologna non inaugurasse quella rivisitazione coraggiosa e visionaria di cui la scuola italiana ha drammatico bisogno.