Il Liceo di Oslo, con il preside e 60 docenti, è stato alcuni giorni in Veneto. Non solo per un tour turistico-culturale, ma con lo scopo in primis di conoscere la scuola italiana.

L’istituto prescelto per questa conoscenza è la mia scuola, il Liceo Brocchi di Bassano del Grappa, uno dei più grandi licei italiani, con sei indirizzi, 160 docenti e duemila studenti. Un bel riconoscimento, da parte della scuola norvegese: visitare il Liceo Brocchi come modello di scuola italiana, per capire come è strutturata la nostra offerta formativa “a canne d’organo”, cioè a più indirizzi. 



Una trasferta in massa, impensabile per le scuole italiane, non solo per l’assenza totale di mezzi e di risorse.

I docenti di Oslo sono stati a Bassano, nelle loro intenzioni, per studiare la scuola, per capire come funziona, soprattutto per apprendere – sono loro parole – la nostra “ampia esperienza di internazionalizzazione dei percorsi”, perseguita, in particolare, attraverso gli “scambi scolastici”.



L’esperienza degli “scambi” è infatti una delle novità più rilevanti della scuola di oggi. Perché consente agli studenti una vera full immersion nella vita dei loro compagni stranieri, in scuola ed in famiglia, nei loro aspetti positivi ma anche nelle loro criticità. Delle vere lezioni di vita. In una logica, infine, di reciprocità, di vero “scambio”.

Ma la ragione della visita va oltre. Si vuole conoscere una scuola veneta nelle sue diverse articolazioni, quasi come un modello da studiare, non solamente per gli scambi, ma anche per altre e diverse buone prassi: i progetti Leonardo, i Viaggi Studio, l’Esabac, i corsi English Alive, il Comenius, le certificazioni, ecc.



Una buona scuola, si direbbe, nonostante le difficoltà che tutti conosciamo.

Il riconoscimento norvegese è legato, nel complesso, alla buona tradizione di molte scuole venete, definibile in termini di apertura (non solo) europea dei percorsi formativi, come via maestra per dare una mano ai nostri studenti, non solo in vista della equipollenza dei titoli di studio, in modo che si aprano alla mondialità delle opportunità e delle esperienze, ma anche nella prospettiva del mondo del lavoro globalizzato.

Ricordo solo, per intenderci, la recente indagine condotta dall’Ipsos: la scuola italiana nel suo complesso viene bocciata, dall’Osservatorio nazionale della internazionalizzazione delle scuole e della mobilità studentesca, proprio perché poco propensa a questa apertura.

Una internazionalizzazione non molto praticata, in verità, nemmeno in Veneto, tanto che gli studenti solo a titolo personale scelgono programmi di mobilità individuale. Penso qui ai progetti Intercultura che prevedono un trimestre oppure un intero anno all’estero. Lo scorso anno sono stati 4.700 gli studenti italiani che hanno fatto questa esperienza all’estero, ben il 34% in più rispetto al 2009. E questo nonostante la crisi.

Sono, dunque, ancora pochi gli studenti coinvolti. I motivi sono diversi, al di là dei costi, anche se il 48% di loro vorrebbe che l’iniziativa partisse dalle proprie scuole. Il 77% degli intervistati ritiene fondamentale il ruolo dei docenti per la scelta di una esperienza all’estero, mentre, tra gli stessi docenti, solo la metà ne dà un giudizio positivo, ed il 10% addirittura ne parla male.

Perché, questa la critica dei più, “ci sono i programmi da svolgere…”.

Ma l’indagine dice altre cose, al  di là delle difficoltà delle famiglie e del costo di queste iniziative. Presenta anche un profilo di studente che è un po’ conservatore, troppe volte demotivato verso il mondo della formazione, rinchiuso nelle tranquille certezze famigliari. Mentre invece la nostra “società aperta” sta chiedendo motivazione, coraggio della scoperta, intraprendenza.

Anche l’utilizzo della lingua straniera, insegnata in Italia troppe volte con metodi tradizionali, centrati sulla grammatica, è da noi un problema. Non è cioè visto come un nuovo strumento di dialogo, di conoscenza di nuove realtà.

Dovremmo invece abituare i nostri giovani, assieme alla sana prudenza, a non avere paura delle nuove esperienze, culture, relazioni, lingue. 

La generazione che entra ogni giorno in classe la potremmo definire “vorrei ma non me la sento”, nel senso che vorrebbe una scuola aperta, ma, al tempo stesso, teme di allentare un po’ il cordone ombelicale con la propria famiglia, con gli amici, con il proprio territorio. I nostri giovani dicono, ad esempio, di amare i viaggi, ma solo per il 36% si dice disposto ad andare all’estero, un domani, per trovare un lavoro.

Come si vede, nuove responsabilità educative stanno segnando il mondo della scuola, responsabilità non sempre riconosciute, anche per norme oggi antiquate. Il mondo della scuola, al di là di alcuni esempi positivi, è ancora troppo chiuso e conservatore, centrato più sull’offerta che sulla domanda formativa, una impostazione obsoleta. Noi invece sappiamo che è nostro dovere aiutare i nostri giovani a capire cosa vuol dire “villaggio globale”, se vogliono avere chance reali nella vita e nel mondo del lavoro. Cioè una speranza di futuro.