Caro direttore,
il dottor Sestito risponde molto civilmente alle critiche rivolte all’Invalsi, dichiarandosi aperto a discutere anche quelle più severe, e di ciò va ringraziato. Ma la sua replica non risponde affatto alle questioni di fondo, anzi, le elude, dando per scontati concetti che sono proprio quelli su cui occorre portare la discussione.
La risposta del dottor Sestito mette in evidenza il peccato originale dell’Invalsi che, se non corretto, può condurre a effetti sempre più devastanti. Questo peccato consiste nel fatto che l’Invalsi non è più soltanto un ufficio operativo, ma un vero e proprio ufficio studi, anzi un centro ideologico che opera sulla base di un serie di assiomi dati per scontati e che sono invece altamente opinabili. È come se l’Invalsi si fosse arrogato un diritto che nessun centro di ricerca si è mai permesso: risolvere in modo definitivo e apodittico questioni centrali e controverse dell’epistemologia della conoscenza e della filosofia della scienza. Per questo esso considera al di sopra di ogni discussione il suo operare; e ne trae la legittimazione per condurre una vera e propria opera di “formazione quadri” (valutatori).
Giorni fa è venuta dai vertici dell’Invalsi la seguente autogiustificazione: noi non misuriamo le conoscenze, bensì le competenze. E il dottor Sestito ribadisce e precisa il compito dell’ente: «misurare le competenze intese come capacità di usare le conoscenze in contesti diversi e non scolastici».
Mi limito qui a richiamare una serie di punti che ho discusso più dettagliatamente in un dibattito sulle competenze comparso su Scuola Democratica poco più di un anno fa.
1) “Misurare”. Permetterà il dottor Sestito, ma questo uso disinvolto del termine “misurare” applicato a entità immateriali è a dir poco perturbante per chi si occupa di storia ed epistemologia della scienza da decenni. Esiste una letteratura sterminata su questa tematica e anche i più arditi sostenitori dell’applicabilità delle metodologie quantitative in uso nelle scienze esatte fuori dal loro campo, hanno sempre ammesso la non misurabilità dei concetti che intervengono nel dominio delle proprietà immateriali.
La domanda è semplice: “qual è l’unità di misura in gioco?” (nella fattispecie l’unità di misura delle competenze). Evidentemente non esiste. Persino von Neumann che si spinse a introdurre l’idea di “utile” come unità di misura dell’utilità fece macchina indietro dichiarando che l’inconfrontabilità delle “misure” ottenute per soggetti diversi rende impossibile parlare di “misurazione”. So bene che esiste una letteratura pseudo-scientifica che tenta di avallare l’idea che si possa “misurare”, dichiarando “superato” il problema dell’unità di misura. Ma è opportuno parlare di cose serie e seriamente. Difatti, quando ho posto questo problema non ho mai avuto risposta salvo due volte: la prima affermando che l’unità di misura delle competenze sarebbero i test; l’altra quando si è obiettato che anche quando si attribuisce un voto si “misura”.
Sono risposte assurde. Evidentemente il test non è un’unità di misura di alcunché. Il test è formulato da persone, secondo criteri soggettivi, discutibili, non a caso accesamente discussi. Pretendere che i test siano unità di misura è come immaginare che un gruppo di persone si affolli attorno a un tavolo per misurarne i lati, ciascuna col suo metro personale, litigando su quale sia il più corretto e affidabile. Il punto è che sventolare la parola “oggettivo” come troppo spesso si fa dall’Invalsi, è inaccettabile: la valutazione è un’attività che ha un’ineliminabile componente soggettiva e cercare di nasconderla è come gettare la spazzatura sotto il tappeto. Al signore che mi disse che quando attribuisco un voto a un esame “misuro”, risposi che non misuro un bel niente, bensì fornisco una stima numerica, con un sistema convenzionale, del mio giudizio soggettivo del candidato.
Certo, siamo tutti d’accordo nel voler perseguire valutazioni il più possibile condivise, ma lasciamo perdere una volta per tutte i termini “misurare” e “oggettivo” e parliamo dell’esigenza di perseguire valutazioni il più possibile “equanimi”, “imparziali” e “condivise”. In fondo, per questo esistono i consigli di classe e la discussione tra insegnanti. La cultura è discussione interminabilmente aperta. La valutazione è un processo culturale e volerla ridurre a una tecnica di misurazione come la misurazione di un’intensità di corrente o di una lunghezza è assurdo – vorrei usare termini assai più forti, ma mi limito a dire “assurdo”. Si può pretendere su simili fragili basi di costruire una misurazione di Stato?
2) “Competenze”. Il dottor Sestito dovrebbe sapere che non esiste affatto una definizione condivisa di competenza. Dovrebbe sapere che sono stati convocati persino congressi per arrivare a una definizione condivisa e che non si è arrivati da nessuna parte. Esistono centinaia di definizioni diverse di competenze. Egli propone la sua – «capacità di usare le conoscenze in contesti diversi e non scolastici» – del tutto opinabile e alquanto fumosa. Che vuol dire esattamente “diversi” e “non scolastici”? Per esempio, non è chiaro affatto che cosa sarebbe l’uso di conoscenze matematiche in contesti non scolastici. Ma il dottor Sestito non ha colpa perché il concetto di competenza è vasto e inafferrabile e proprio per questo è ancor più assurda l’idea che lo si possa misurare. Piuttosto la colpa del dottor Sestito è di lasciar credere che questo sia possibile, quando gli specialisti più seri di docimologia ammettono che soltanto a livelli molto elementari è possibile una stima numerica (rifuggo dal termine “misurazione”) della capacità di usare conoscenze, mentre è del tutto impossibile quando intervengono aspetti relazionali, il che accade sia nei contesti scolastici che, ancor più, in quelli non scolastici).
Il punto è che è vero proprio il contrario di quel che asseriscono i vertici dell’Invalsi. In misura assai limitata è possibile stimare numericamente le conoscenze di una persona, anche con test a risposta chiusa: posso verificare se uno studente conosce o no il teorema di Pitagora, l’algoritmo della divisione con resto o la legge commutativa dell’addizione; posso controllare la sua conoscenza delle regole basilari dell’ortografia, della grammatica e della sintassi. Ma è velleitario, se non grottesco, pretendere di stimare numericamente le sue “competenze”, quale che ne sia la definizione.
Tempo fa feci l’esempio di un’esperienza realmente effettuata su bambini della primaria ponendo loro un semplice problema matematico derivante da una situazione reale. Le soluzioni furono molto diverse: c’è chi seguì una via aritmetica (di puro conteggio), chi propose un’impostazione che conteneva idee di tipo algebrico, chi tradusse il problema in termini geometrici. Come valutare le competenze? Personalmente, considero di gran lunga più interessante ed espressione di una mentalità creativa l’approccio geometrico; ma sono certo che altri colleghi, ispirati a una visione matematica più astratta, preferirebbero l’approccio algebrico, indicativo di una mentalità già strutturata dal punto di vista logico. E vi potrebbero essere molti altri punti di vista su cui confrontarsi, che dipendono da visioni culturali che non possono certo essere standardizzate da un’ideologia di Stato.
L’unico approccio culturalmente sensato e aperto è affidare la riflessione a un insegnante, che oltretutto conosce i soggetti in gioco; magari un insegnante che ha posto a confronto la sua visione con quella di altri colleghi o in un processo continuo di formazione in servizio, anche a contatto con l’università. Già un gran passo avanti sarebbe istituzionalizzare un rapporto culturale tra insegnanti nelle scuole. Ma non voglio deviare il discorso. Resta il fatto che è raccapricciante l’idea che una classifica di competenze tra diverse soluzioni di un problema (come nel caso citato) sia affidata a un gruppo di “valutatori” che procede secondo schemi standardizzati e stabiliti una volta per tutte.
D’altra parte, come può pretendere l’Invalsi di possedere le competenze (è il caso di dirlo!) per stabilire procedure standardizzate di valutazione di questioni e situazioni tanto variate e tanto complesse?
Si rassegni il dottor Sestito: i principi della cultura, della conoscenza e delle capacità non si definiscono e non si standardizzano, tanto meno in un ente di Stato.
In un commento alla mia lettera aperta al ministro Carrozza, un lettore de ilsussidiario.net ha ricordato come, in un recente seminario, la dott.ssa Bertocchi abbia osservato che per i «tre aspetti fondamentali della competenza linguistica – interazione orale, analisi e comprensione di un testo scritto e riflessione metalinguistica, produzione di un testo scritto – solo per il secondo siamo in grado di mettere in campo un test di misurazione». La massima stima per la dott.ssa Bertocchi, ma forse dovrebbe rassegnarsi a non presentarsi come una sintesi di Saussure, Cassirer e Chomsky: lasci perdere la definizione dei “tre” (e perché non quattro, sei o tredici?) aspetti fondamentali della competenza linguistica; è troppo anche per lei.
Sono queste pretese che rendono antipatico l’Invalsi. Siamo grati che si sia almeno ammesso che per il primo e terzo aspetto non si sappia come “misurare”. Ma affermare che sia possibile mettere in campo test di misurazione per il secondo aspetto, non è solo inaccettabile, ma è una pretesa che aggiunge all’antipatia l’irritazione. Per favore, non ci prendete tutti per scemi: abbiamo studiato anche noi e sappiamo cosa sia un testo letterario. La ricchezza di un testo letterario (di valore) consiste proprio nella multiformità e inesauribile ricchezza dei suoi significati e delle possibili interpretazioni. Altrimenti l’esegesi e la critica letteraria non esisterebbe o sarebbe riducibile a un prontuario (compilato da un ufficio).
Non esiste un’interpretazione univoca di un testo e spesso lo studente più intelligente è proprio quello che vorrebbe apporre più di un crocetta sulle varie alternative di risposta, o non ne vorrebbe apporre alcuna perché nessuna corrisponde all’idea che si è fatta del senso del testo. Ho esemplificato in vari casi l’assurdità di certi test di comprensione di un brano letterario e non ho avuto alcuna risposta, se non la vaga difesa che si trattava di verificare soltanto la comprensione testuale. Ma non è così, e non soltanto perché i test mirano a ben altro, ma anche perché l’intento è molto più ambizioso: “analisi” del testo e addirittura “riflessione metalinguistica”.
Come definire, se non molto severamente, l’idea che ci sia un gruppo di persone che si arroga il diritto di sentenziare qual è il significato dei primi versi della Ginestra di Leopardi o quali sono i sentimenti dell’Innominato, e su questa base di valutare i candidati?
Ripeto: è l’ergersi a centro dispensatore di precetti apodittici che riguardano nientemeno che i pilastri dei processi di conoscenza, che rende francamente insopportabile l’agire dell’Invalsi per chiunque creda ancora nell’autonomia intellettuale e nella libertà di pensiero (e, di conseguenza, nella libertà d’insegnamento). Con quale diritto ci si costringe a sentir parlare certi consulenti dell’Invalsi di “matematica argomentativa”, di “advanced mathematical thinking” (l’inglese è un passaporto per tutto) o di consimili idee strampalate offerte come verità stabilite per decreto legge?
Questa è cultura di Stato, roba che può affermarsi soltanto in un paese che non ha interiorizzato una visione liberale e aperta della cultura e che è ancora oppresso da un dirigismo di stampo bottaiano.
Si richiede un po’ più di riflessione e di cautela e, soprattutto, un po’ più di modestia.
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(Segue una Nota di Daniela Bertocchi, 19 maggio 2013)
In questo mio breve intervento non commenterò l’articolo e le idee del Prof. Israel su quello che è possibile, o non è possibile, “misurare” e su quelli che sono, o non sono, i peccati originali dei valutatori di professione. Mi limiterò a rispondere alle calunnie sul mio conto che, non so per quale motivo, Giorgio Israel ha pensato bene di inserire nel suo articolo, in particolare nell’ultimo paragrafo di pagina 3. Non è mia abitudine usare il sarcasmo per distruggere professionalmente persone che neppure conosco e quindi non chiederò al Prof. Israel di documentare le sue competenze specifiche, in ambito linguistico e letterario, e le sue pubblicazioni in merito, che gli permettono di discettare sull’esegesi e la critica letteraria, tirando in ballo triti luoghi comuni. Prendo atto che sono “antipatica” al Prof. Israel e che anzi il mio modo di parlare di competenze “aggiunge all’antipatia l’irritazione”. Mi dispiace, anche perché io non ho affatto affermato ciò che viene riportato come virgolettato (peraltro di seconda mano, ripreso da un commento di un lettore a un articolo precedente). C’è un modo molto semplice per ascoltare quello che ho realmente detto e che ora riporterò: basta andare alla registrazione della presentazione avvenuta il 4 aprile e videoregistrata, di cui questo è il link: http://www.invalsi.it/invalsi/istituto.php?page=eventi . Ora io ho affermato quanto segue (questo sì, letteralmente): «Le competenze costitutive della padronanza linguistica riguardano sia l’interazione sia la produzione e l’ascolto orale sia la lettura sia la scrittura». La distinzione in quattro competenze linguistiche (ascoltare; parlare e interagire; leggere; scrivere) è stata elaborata da moltissimi anni ed è presente in importanti pubblicazioni sia italiane sia internazionali, a cominciare dalle classiche ricerche dei Proff. Freddi, Balboni e Vedovelli, che ha anche analizzato un importantissimo testo del Consiglio d’Europa, il “Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento insegnamento valutazione”, pubblicato nel 2001 dopo trent’anni di ricerca e studio. Tutti studiosi di linguistica che sulle competenze linguistiche ne sanno qualcosa di più del Prof. Israel. O no? Questa categorizzazione delle competenze linguistiche è adottata da molti anni anche in testi normativi italiani (ad esempio già nei “Programmi per la scuola media” del 1979, nelle “Indicazioni nazionali per il primo ciclo di istruzione” del 2007, come pure nelle nuove Indicazioni nazionali del 2012). Il mio discorso è continuato così: dopo aver detto che per motivi tecnici, in particolare in una prova censuaria, non era possibile verificare (non “misurare”) tutte le competenze linguistiche, ho affermato «le competenze che si possono realmente rilevare in questo tipo di prova sono tutte quelle che afferiscono alla lettura dei testi e alla riflessione linguistica». In tutto il mio intervento io non ho mai usato la parola “misurare”: credo che basti consultare un dizionario per scoprire quali sono le differenze tra “misurare” e “rilevare, verificare, valutare”, che sono i verbi che io ho usato. Secondo punto: sinceramente non so che cosa abbia voluto dire Israel con l’affermazione che lei (cioè io) “forse dovrebbe rassegnarsi a non presentarsi come una sintesi di Saussure, Cassirer e Chomsky… è troppo anche per lei”. Immagino che volesse dire che non solo sono ignorante, ma anche presuntuosa. Aspetto che il Prof. Israel dimostri, documenti alla mano, quando e come mi sono presentata come una sintesi dei tre insigni studiosi. Questa affermazione lede gravemente la mia serietà e affidabilità professionale, che è il mio unico patrimonio, e mi aspetto da Giorgio Israel delle scuse pubbliche, in mancanza delle quali dovrò procedere a tutela della mia onorabilità. Terzo punto: io non sono un “valutatore di professione”. Per trent’anni ho insegnato italiano, nella scuola media e al liceo, e contemporaneamente ho fatto ricerca e divulgazione sull’educazione linguistica e sulla didattica della lingua, compresa naturalmente la valutazione: a dimostrarlo c’è il mio curricolo e soprattutto le mie pubblicazioni. Ringrazio ilsussidiario che mi ha dato, sia pure con parecchio ritardo, questa possibilità di replica, in cui ho cercato di ricostruire la realtà dei fatti, ampiamente documentati. Chi fa ricerca, chi scrive lo fa, credo, per dare un contributo al progresso culturale, e giustamente porta le sue argomentazioni, anche con forza. Ma non si abbassa mai all’insulto personale e alla calunnia.
Daniela Bertocchi
18 maggio 2013