Il referendum di Bologna riguardante l’erogazione dei fondi comunali alle scuole paritarie, ha visto la partecipazione di 85mila persone. Se siano molte o poche (di cui il 35% ha votato a favore dell’erogazione dei finanziamenti comunali alle scuole paritarie convenzionate), spetterà dirlo a chi ha il compito di decidere (la Giunta comunale). Resta il fatto che dal referendum si possono cogliere alcune importanti annotazioni, sia sul fronte di coloro che hanno promosso il referendum, sia sul fronte opposto, ovvero di coloro che hanno condotto una battaglia per la difesa del sistema scolastico delle convenzioni.
Per capire cosa è emerso, bisogna illustrare il panorama delle scuole paritarie: con il milione di euro che il Comune eroga alle scuole paritarie convenzionate (cioè quelle scuole che si sottopongono al controllo di standard pubblici e che rispettano programmi scolastici monitorati dagli organi istituzionali competenti) il Comune garantisce un servizio a circa 1700 bambini; senza quelle scuole, e operando attraverso un’erogazione diretta, il Comune riuscirebbe a garantire il servizio soltanto a 200 bambini.
Apro parentesi: la diatriba sui finanziamenti, sul costo reale delle scuole paritarie (ai quali va ovviamente aggiunto il costo della retta che ciascuna famiglia paga) non è affrontabile in questa sede: resta un problema aperto. Di certo, l’azienda pubblica statale non brilla per efficienza ed economicità, e quindi, sarebbe ragionevole (come lo è) pensare che la gestione privata garantisca (nel rispetto degli standard pubblici) un’efficienza perlomeno simile portando con sé standard di costo minori. Chiusa parentesi.
Perché mai insomma i referendari avrebbero mosso sì tante energie per (provare a) costringere il Comune a ritirare quel milione? La ragione non sta nell’efficienza: da un punto di vista comunicativo lo slogan in difesa della scuola pubblica ha avuto gli effetti positivi per il Comitato dei referendari: nascoste da una patina di riformismo garantista (scuola pubblica come sinonimo di uguaglianza) le ragioni profonde dei referendari si possono racchiudere nel concetto: “neutralizzare le identità cattoliche negli spazi pubblici”.
Il senso profondo di una battaglia così aspra che ha visto la scuola come vittima (la prossima vota si parlerà di sanità, poi di università ecc.) non sta appena nell’erogazione dei fondi, nella presunta non uguaglianza della scuola privata: il senso profondo sta (da parte dei referendari) in una concezione distorta del concetto di laicità. Si fa riferimento ad una laicità che non è il comun denominatore sul quale le differenze poggiano la propria relazione, ma che diventa un mantra da scagliare in negazione dell’identità (in questo caso dei cattolici). Scuola pubblica come sinonimo di laica, e scuola privata come sinonimo di confessionale. Entrambe le accezioni riportate dai referendari peccano (per così dire) di superficialità.
La laicità, frutto elegante della cultura occidentale, è insita nella Costituzione italiana quale garanzia della possibilità che non vi sia una cultura che per qualche ragione e in nome di una presunta superiorità, neghi ad un’altra il diritto ad esistere. Sarebbe, come lo è, paradossale, in nome della stessa laicità, negare ad una cultura (in tal caso quella cattolica) il diritto all’esistenza.
Non è un fatto nuovo: è l’ormai nota diatriba tra laici e laicisti, i quali in nome del pensiero debole (non esiste verità) diventano assolutisti negando la possibilità agli altri di appartenere a una certa cultura e di professarla. Da un lato si nega l’esistenza della verità, e lo si fa in nome e per garanzia della convivenza sociale, dall’altro si costruisce un’assoluta verità affermando che la convivenza sociale tra diversi è possibile solo quando l’identità è negata.
Purtroppo questa scopo di neutralizzare le identità particolari (mascherata da battaglia referendaria in favore delle scuole “pubbliche”), sinonimo per i referendari di confessionalismo, non è stata colta con la dovuta attenzione, nonostante i tantissimi contribuiti a favore della scuola privata che sono venuti dal mondo laico, come è augurabile che sia, quando a tema non vi è un principio religioso (dal quale ciascuno può distinguersi) ma uno dei pilastri della convivenza civile, la scuola.
Il tema, per coloro che non si riconoscono nell’assolutismo del laicismo come unica possibilità per la convivenza civile, è ripartire dall’identità, come luogo di definizione delle proprie azioni, delle proprie battaglie, non in nome di una verità che sia a-priori esposta, ma fornendo alla convivenza sociale e politica un punto di vista, al servizio di tanti altri punti di vista.
Il referendum (senza saperlo) ha rimesso in gioco un’antica questione: da un lato chi vuole neutralizzare lo spazio pubblico, rendendolo bulimico e senza differenze, costringendo le identità a nascondersi tra le mura domestiche, dall’altro chi, proprio in nome della laicità figlia della cultura occidentale, chiede con forza che lo spazio pubblico torni ad essere lo spazio di tutti, di ciascuno, e nel quale ogni cultura possa contribuire al bene dell’intera comunità. Va da sé, affinché ciascuna cultura possa essere di aiuto alle altre, che essa debba avere la stesse possibilità di crearsi (luoghi di aggregazione), di ricrearsi (attraverso scuole, università, ecc.) e di misurarsi nel confronto con le altre.