Per quanto cerchi sensatamente di tenersene alla larga, l’Invalsi incappa sempre in nodi strutturali non risolti della scuola italiana. Nelle prove del Servizio Nazionale di Valutazione si tratta di ciò che gli studenti debbono sapere e saper fare (Standard? Osa? Traguardi?). Nella prova dell’esame di Stato (per ora della scuola media) si tratta dell’effettivo valore e comparabilità dei voti che danno gli insegnanti nei titoli di studio. Ma la colpa è dell’Invalsi o di chi questi nodi non vuole o non è capace di sciogliere? C’è chi sostiene che, nell’attesa di Godot, nessuno si deve muovere. Ma nel frattempo non esiste alcuna garanzia che ogni insegnante non vada per la sua strada e che non si consumino palesi ingiustizie con voti taroccati.
Parliamo degli standard o come che li si voglia chiamare. L’Invalsi si sostituisce al Miur, o meglio ancora al Parlamento che dovrebbe legiferare in proposito! Grazie al cielo i nostri parlamentari della Commissione Cultura si dedicano generalmente ai problemi del personale e sembrano avere un certo senso della misura in relazione alle loro effettive competenze. Quando si dice Miur poi si intende o apparato o esperti. È vero che in passato ottimi laureati in legge dell’apparato hanno discettato e deciso su tutto lo scibile umano, ma ora ci troviamo palesemente di fronte ad un suo indebolimento, anche quantitativo. Gli esperti di ogni matrice poi si sono poi recentemente prodotti in ben tre edizioni di Indicazioni per la primaria e secondaria inferiore ed in un faticosissimo parto per la superiore. Non volendo dare un giudizio sui contenuti di queste elaborazioni, c’è tuttavia un dato incontrovertibile: nessuno si è voluto o potuto misurare con la indicazione di obiettivi concreti e specifici che potessero essere significativi per la concreta attività delle scuole.
Qui non si tratta di discettare di conoscenze e di competenze e qui probabilmente ha ragione il professor Israel quando afferma che è più possibile e semplice misurare o verificare queste ultime. Non c’è peraltro nulla di male a misurare le conoscenze. Vogliamo parlare della condizione ortografica e grammaticale degli avvisi pubblici di ogni genere? Si tratta di creatività o degli stessi “buchi neri” che fanno disperare i prof universitari quando debbono leggere o meglio correggere le tesi? E la causa sta solo nelle maestre piombate nella più bieca ignoranza? O si tratta di uno dei frutti perversi e ritardatari di un antiautorismo d’accatto? Ed è poi così fuori luogo una bella batteria annuale di item Invalsi che ribadiscano la bellezza dell’h davanti alla a?
È peraltro vero che gli item dell’Invalsi, nonostante quanto ne dicano detrattori anche famosi come Luciano Canfora, non sono affatto quiz, ma al contrario richiedono prestazioni di livello intellettuale più raffinato. Ed in quanto tali possono essere definiti test di competenze.
La qual cosa è stata ben capita dagli insegnanti che – a differenza dei cattedratici − li analizzano e a volte ne lamentano non il semplicismo, ma l’eccesso di difficoltà. E sta qui la ragione profonda dell’assenza della sollevazione di massa dei docenti che alcuni sembravano attendere. È anche vero che a volte i terreni su cui si muovono – come l’analisi dei testi letterari − sono molto delicati ed opinabili e che bisogna andarci con i piedi di piombo, poiché l’ambiguità, che è caratteristica del testo letterario, mal si presta a minuziose letture univoche. Bene sta facendo Invalsi a spostarsi sul terreno dei testi funzionali, garantendo che i nostri studenti non riproducano pappagallescamente sofisticate analisi strutturaliste senza poi saper leggere le istruzioni del frigorifero. Tuttavia la tradizione della scuola italiana è sempre stata, a torto o a ragione, legata all’ analisi del testo letterario e forse sarebbe stato un eccesso di novità cominciare a piedi uniti con letture di grafici e di analisi statistiche.
È poi forse il caso di dire una sgradevole verità. Che cioè l’apparato italiano di pedagogisti e cultori delle varie materie a livello universitario si è dimostrato incapace negli ultimi 20 anni di produrre un Sillabo minimamente attendibile che fosse di guida alle attività didattiche delle scuole. E che in questo vuoto, dovuto in parte alla cultura dell’inconoscibile e dell’impalpabile, ma forse più realisticamente alla incapacità culturale, si sono inserite le grandi valutazioni internazionali di Iea ed Ocse, che hanno dato delle linee e dei punti di riferimento. Che in altri paesi come la Germania hanno offerto il terreno per predisporre valutazioni nazionali ai vari livelli e con diversi obiettivi, confrontando i Framework internazionali con la tradizione culturale e pedagogica nazionale. E che qui invece faticano a trovare interlocutori validi, anche necessariamente ed auspicabilmente critici; le stesse associazioni disciplinariste si sono adeguate più o meno prontamente, ma non sono state un’avanguardia. Per il bene o per il male bisogna sempre ricordare che la battaglia per le valutazioni esterne standardizzate l’hanno condotta gli economisti dell’istruzione.
Quando poi ci si sente sempre ricordare che la valutazione effettuata dagli insegnanti è “altra cosa”, si sente il desiderio di avere qualche informazione più chiara a riguardo: si tratta del fatto che si misura il percorso e non il punto di arrivo? O del fatto che solo una valutazione individuale e soggettiva può valutare competenze per esempio di espressione orale? Questo è ovvio, purché non si tratti della ben nota e famigerata interrogazione che è per lo più un modo di sprecare il tempo per verificare un mero possesso di conoscenze. Ma la valutazione “interna” e quella esterna debbono essere complementari e non sovrapposte. Tutte e due però di buon livello …
Infatti, come nel caso della polemica sulla certificazione, il punto debole di certe posizioni sta nell’analisi dello stato attuale delle scuola italiana. In quel caso si sosteneva con molta decisione che è pratica comune della nostra scuola attuale collocare l’acquisizione di conoscenze in un contesto finalizzato al che farsene per la costruzione del proprio Io. Cioè alle competenze. In questo caso si ipotizza che non sia possibile introdurre alcuna forma di valutazione standardizzata, di cui infastidisce la pretesa di oggettività e di assolutezza. La valutazione dovrebbe invece essere fatta esclusivamente dai docenti di classe in continua interazione fruttuosa con i colleghi (attenzione! sulla valutazione!) ed in collegamento con le università.
Sarebbe facile fare dell’ironia sul realismo di questo panorama. Purtroppo in Italia siamo ben abituati ad argomentazioni che condannano il possibile in nome dell’ideale ovviamente inesistente. Qualcuno può pensare che il difetto stia nell’estendere a tutta la scuola italiana le caratteristiche che sarebbero proprie dei licei, dove la presenza di una élite culturale ed intellettuale renderebbe possibili ed anzi comuni condizioni di apprendimento ideali, che verrebbero guastate dall’intrusione di maldestre domanducce di basso livello. Ma questo qualcuno ha messo piede nei nostri licei? È stucchevole ripetere che le eccezioni ci sono sempre, ma nella grande massa l’impressione è che sia perfino accentuata, rispetto agli altri tipi di scuola, l’abitudine ad una mera riproduzione delle conoscenze, grazie alla maggiore alfabetizzazione ed alla più formale educazione degli allievi.
In definitiva l’impressione di un osservatore disinteressato è che il mondo esterno all’Invalsi che, per le più varie ragioni, ritiene di dover avere voce in capitolo si collochi a volte in posizioni di avversità pregiudiziale perché pensa di non essere sufficientemente consultato e valorizzato. Può essere che ciò sia vero, ma va tenuta in conto la difficoltà estrema in cui questa operazione si è mossa, l’arretratezza e l’ostilità della cultura della sinistra ed il solo parziale interesse e l’ambiguità di quella della destra in proposito. L’operazione Invalsi è iniziata più di 10 anni fa e solo la distrazione e l’incapacità di visione strategica dei suoi avversari, oltre che l’insostenibilità della realtà sociale italiana, ha permesso che si arrivasse, sia pur faticosamente, a questo punto. Punto che peraltro ogni anno viene con violenza rimesso in discussione da una rumorosissima minoranza. Si potrebbe anche pertanto capire una certa sindrome dell’assediato, che dovrebbe però scomparire via via che, come sta avvenendo, la situazione si afferma e si stabilizza.
Tornando al nodo strutturale della presenza di una parte standardizzata negli esami, non si capisce come i sostenitori del valore legale del titolo di studio non comprendano che questa è la sola strada per mantenerlo. O forse si pensa di poter continuare con la disparità nei giudizi fra le varie parti d’Italia, notissima disparità che però 10 anni fa non si poteva neanche nominare e che solo le valutazioni esterne nazionali ed internazionali hanno messo in bella evidenza? Alcuni presidi ed insegnanti della media lamentano che ciò impedisce loro di dare la valutazione che ritengono giusta per i loro allievi. Innanzi tutto sarebbe interessante, sulla base dei dati, capire se, dalla data di introduzione della Prova Nazionale c’è davvero stato un tracollo dei voti di eccellenza, che son quelli per i quali si sarebbe verificato il problema. E poi non tutti la pensano così: c’è chi pensa che un controllo dall’esterno delle reali qualità degli allievi possa mettere in rilievo pregi e difetti che la scuola non sempre vede. Ad esempio, pare che le cosiddette intelligenze naturali, magari meno coltivate e socializzate, a volte in questo tipo di sfide tutt’altro che nozionistiche diano esiti insospettabili.