Scriveva Clemente Rebora, in uno dei suoi Frammenti lirici: “Forse altrove sei bella, o primavera: /non qui, dove uno sdraia /passi d’argilla e per le reni vuoto / scivola il senso e gonfia la ventraia, / mentre l’anima giace pietra al fondo / d’una gora, e si contrae / l’idea nel tempo che vien già divelto / con nausea intorno alle cose” (Primavera). Non vi è più alcun annuncio, nessuna novità, nella città dove “scivola il senso” e rimane soltanto un’aria di nausea. Altrove la primavera canta il tempo nuovo, non là dove “l’anima giace pietra al fondo”, ancorata ad una realtà collettiva e alienante, separata dal cuore. Altrove la primavera è bella, dove ancora esiste il singolo, in attesa di rinascere. Nel libro La ribellione delle masse dello spagnolo José Ortega y Gasset, viene descritto e annunciato il cuore della trasformazione e del mutamento della società moderna: “Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti. Le anticamere dei medici pieni di ammalati […]. La moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile […]. Prima, se esisteva, passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro”.
Ed è proprio l’antonimia tra protagonista, ovvero singolo, individuo, e coro ad emergere come carattere fondante della civiltà consumistica. Il coro non è più la comunità e la comunione delle voci riunite nel medesimo destino, nella medesima necessità di rinuncia alla libertà. Non vi è neanche più, per questo, alcuna traccia del tragico. E, forse, la tragedia, oggi, non è neanche possibile, poiché l’interrogativo intorno al destino, e dunque qualsiasi condivisione di esso, viene taciuto, o è stato taciuto, celato dietro il sipario della realtà. Al di qua, nel mondo visibile e nel quotidiano, il coro, e con esso ogni possibilità di voce e grido comune, è stato sostituito dalla massa, che è il carattere spersonalizzato e spersonalizzante del coro. E, in Italia, l’alienazione e l’omicidio della singolarità per mano del potere, è facilmente individuabile e collocabile negli anni del “miracolo economico” (1958-1963).
È in quegli anni che il Potere ha rubato le (tante) culture dei singoli e delle popolazioni locali che componevano il quadro vario e differenziato dell’Italia contadina e arcaica, degli italiani che ancora potevano emergere nel mare conflittuale di una realtà in veloce cambiamento, con la propria voce e il proprio tono. Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale che più di tutti gridò e denunciò lo scandalo della spersonalizzazione e dell’omologazione nell’Italia divorata, al suo interno, da un cancro inevitabile, individuò nell’opera compiuta dalla televisione la radice più profonda e acuta di tale metamorfosi: “Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”. “L’uomo che consuma”, così, si aggira, dimentico della propria origine, per strade estranee, burattino e marionetta nelle mani di un Centro impalpabile, di un valore imposto e dettato.
La tragedia, semmai oggi sia ancora possibile, è la tragedia del singolo separato dalla realtà, diviso dalla cultura dominante, avverso alla corsa infrenabile. La tragedia, oggi, è quella dell’uomo cosciente del proprio cancro, consapevole che nulla più ha valore e senso, al di fuori di quella laica religio del consumo. Così, l’ultimo Montale rinuncia alla poesia, consapevole che ormai la parola è stata svuotata e banalizzata, inserita nel circuito e nel meccanismo del Potere-salvezza. E, qualora dovessero ancora ascoltarsi delle parole vere (“Le sue parole sono la Verità”), ci sarà sempre in agguato il cafarnao “delle carni, dei gesti e delle barbe. / Tutti i lemuri umani avranno al collo / croci e catene. Quanta religione. / E c’è chi s’era illuso di ripetere / l’exploit di Crusoe!”. I versi dell’ultimo Montale, infatti, non hanno più niente di sublime e di elevato, ma si pongono consapevolmente al confine fra poesia e non poesia, caratterizzati da un’evidente svolta in senso prosastico.
Per reagire al vuoto della parola consumata e banalizzata, al “trionfo della spazzatura” che caratterizza la realtà travolta nel vortice dello sviluppo industriale, il poeta abbandona lo stile alto e concentrato della sua poesia precedente (da Ossi di seppia alla Bufera e altro), per una comunicazione più diretta, nella quale domina la parodia e l’ironia, lo scambio e la miscela tra livelli diversi. Nel presente si apre, dunque, ormai appieno dinanzi agli occhi dell’anziano poeta «quel mare / infinito, di creta e di mondiglia» di cui Montale già aveva parlato in una poesia della quinta sezione della Bufera e altro.
Come indirizzare quello slancio morale che permeava le poesie di Rebora, il nostro bisogno di essere presenti a una realtà spersonalizzante? L’autore che, più di tutti, nel novecento italiano, ha indicato una via d’uscita dai “meccanismi” del potere e dalla ideologia consumistica è stato Giovanni Testori. In un passaggio da Il senso della nascita, egli afferma: “E come rischiarare la demenza, come liberarla se non gli fai ritrovare il senso di quel primo momento, di quel primo vagito, e poi il senso che è dentro, legato strettissimamente, il senso del primo vagito di Cristo, cioè di Dio che per darci memoria s’è fatto uomo? (…) Lì è il nodo di tutto: la richiesta di questo ritorno a casa, che è la riconquista della memoria e anche della possibilità della meta. Allora tutta la strada che dovremo percorrere, tutto il dolore che ci sarà lungo questa strada, perché al punto in cui siamo sarà una strada dura e dolorosa, se tu hai sempre presente il momento della storia in cui è nato Cristo, il momento della storia in cui Dio ti ha fatto nascere, il momento in cui sei nato, se lo hai sempre presente, hai in te la ragione totale, quindi la ragione affettiva, il calore e la forza per percorrere questa strada”. Soltanto allora l’uomo può riconciliarsi con la realtà e con il presente, libero dalle logiche e dall’ideologia totalizzante imposta dal Centro. Recuperando il senso della propria origine, della propria nascita carnale dentro le barriere della realtà, l’uomo può tornare ad esistere prima e oltre il coro divenuto massa, prima e oltre il grande dettato moralistico e univoco in cui viviamo. E, allora, la primavera può tornare ad essere bella.