«Tu quoque, Brute, fili mi?». Le ultime parole che, secondo la tradizione, Giulio Cesare avrebbe amaramente rivolto contro l’esecutore materiale del proprio assassinio, Marco Giunio Bruto, sono l’emblema dell’omicidio politico. Tuttavia, i nefasti accadimenti al tempo delle Idi di marzo del 44 a.C. non rappresentano una novità. L’intero arco della storia umana – sia prima, sia dopo la morte del generale romano – è attraversato dall’eliminazione dell’avversario politico attraverso la sua soppressione fisica.
Al di là delle sue evidenti implicazioni morali, l’uccisione per finalità politiche presenta due caratteristiche fondamentali. Da un lato, essa assume un carattere “proteiforme”. Nel corso dei secoli, infatti, un tale atto mostra differenti e spesso antitetiche “declinazioni”, le quali mostrano altresì la sua “persistenza” all’interno del divenire storico dei singoli e delle collettività. Dall’altro lato, questo tipo di delitto esprime un elevato valore “simbolico”. Nel Novecento, per esempio, alcuni dei più celebri casi di omicidio politico – dall’attentato di Sarajevo al duca Francesco Ferdinando nel 1914 fino all’ammazzamento di Giacomo Matteotti nel 1924, dalla morte di J.F. Kennedy a Dallas nel 1963 fino al rapimento e all’esecuzione di Aldo Moro nel 1978 – sono diventati dei veri e propri catalizzatori di cambiamento, imprimendo al «secolo breve» una velocità e un’efferatezza che, molto probabilmente, si riteneva ormai seppellita nel passato.
L’ambigua natura “proteiforme” di un termine – La natura “proteiforme” dell’omicidio politico è ciò che – senza cadere in qualche forma di cinismo – lo rende difficilmente inquadrabile all’interno di rigide categorie etiche. L’assassinio politico è per sua natura ambiguo. D’altronde, insieme alla matrice terroristica o a quella autoritaria e totalitaria, l’uccisione del nemico per motivi politici è stata spesso giustificata – durante la prima età moderna – attraverso il ricorso alle teorie del tirannicidio. Se la violenza “irregolare” del sovversivo (rivoluzionario o estremista) e quella “legale” – ma non legittima – del potere costituito dei regimi novecenteschi incontrano infatti una ferma condanna sotto il profilo morale, la giustificazione dell’assassinio politico per motivi di liberazione da un tiranno oppressore esibisce una fluidità concettuale morbosa e intrigante. Non è un caso che per giustificare la lotta contro il monarca Philippe du Plessis-Mornay e Hubert Languet, ritenuti i veri autori delle Vindiciae contra Tyrannos del 1579, utilizzino il significativo pseudonimo Stefanus Iunius Brutus (con un chiaro riferimento sia al cesaricida Marco Giunio Bruto, sia a Stefano, assassino di Domiziano). Proprio nell’opposizione a un governante nemico del suo popolo (o, almeno, di larghe sue frazioni) l’omicidio politico è stato spesso – anche nell’età contemporanea – giustificato persino dai più ferrei idealisti. Il contesto storico, sociale ed economico all’interno del quale si consuma l’uccisione dell’avversario politico è pertanto un elemento fondamentale per l’analisi tanto delle cause quanto delle conseguenze che un simile atto genera.
Un “simbolo” della storia – Fedele alla sua radice etimologica, un simbolo è qualcosa che richiama ad altro. L’evento presente che si consuma di fronte agli occhi dell’osservatore viene accostato, fatto coincidere con un significato che è più ampio. In questa prospettiva, il delitto politico assurge a “simbolo” degli eventi storici precedenti e successivi al suo accadere. Pur se le braci della Prima guerra mondiale già ardevano sotto la cenere dell’Europa, i colpi di pistola sparati da Gavrilo Princip rappresentano il casus belli attraverso il quale l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, dando vita a quella che nell’estate del 1917 Benedetto XV ha giustamente definito l’«inutile strage». Allo stesso modo, l’uccisione del politico antifascista Giacomo Matteotti nel 1924, e soprattutto l’assunzione di responsabilità da parte di Benito Mussolini, non sono altro che il simbolo più eloquente della definitiva e irreversibile deriva autoritaria del regime fascista. Ma, l’omicidio politico è in grado di innalzare a “simbolo” anche le sue vittime.  



Le morti (mai del tutto chiarite) di John F. Kennedy e di Aldo Moro hanno trasformato entrambi in emblemi di un modo diverso di fare politica. Il Presidente degli Stati Uniti è diventano l’immagine – forse, assai spesso troppo idealizzata – di un America illuminata, felice e irrimediabilmente perduta. Un uomo politico – e un Paese – capace di guardare con realismo alla realtà internazionale (come durante la drammatica crisi dei missili di Cuba) e con adeguato riformismo alle spinose questioni sociali e razziali interne. Lo statista italiano – molto spesso, ingenuamente e ideologicamente ritratto dalla più diffusa storiografia – non solo è rimasto l’emblema degli anni del terrorismo, ma anche e soprattutto il coraggioso (forse, visionario) protagonista di un’idea alta di politica che non vedeva nell’altro un nemico da escludere, ma un avversario da includere. Il sacrificio dell’ex leader della Democrazia cristiana possiede un valore simbolico dal momento che rappresenta sia l’apparente fallimento di un tentativo di pacificazione nazionale (attraverso la convergenza delle due principali forze politiche italiane), sia il seme che ha condotto all’inizio della fine del terrorismo.



«Non muoio neanche se mi ammazzano» – In conclusione, la natura “proteiforme” e “simbolica” dell’omicidio politico non solo mette ben in luce la sua ambiguità, ma anche e soprattutto la sua persistenza nelle vicende umane. Quando l’altro in politica non è un bene ma un avversario da cancellare o un nemico da abbattere, risuonano ancora attuali le parole che Giovanni Guareschi affidava al suo Diario clandestino. Il padre del “Mondo piccolo” di Don Camillo e Peppone, così osservava – diventando, seppur senza il sacrificio della vita, emblema di libertà – al tempo della sua prigionia nei lager tedeschi: «Non muoio neanche se mi ammazzano».

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