Di Renato Farina. La vita è piena di “ma anche”, come costata Fritjof Capra. Lo sappiamo bene. La nostra esperienza personale è fatta di cose che si sommano, un po’ si elidono a vicenda sovrapponendosi, a volte si fondono. Così il corso della storia è stato lotta “ma anche” pace; competizione ma anche amicizia.



Io credo però che, nelle questioni essenziali, non c’è somma che tenga, e va privilegiato questo o quello: aut aut. O per esprimerci nel danese di Søren Kierkegaard, che più di tutti ha rivendicato la drammaticità dell’opzione esistenziale: “enten eller”. Il “ma anche”, che in altro modo si può rendere con la sequenza “et et”, in momenti decisivi deve per forza lasciare il posto a scelte che dividono il giusto dall’ingiusto, il bene dal male. Anche quando le cose si presentano con contorni confusi, nella nebbia tocca decidere chi siamo, quale sarà il nostro nome. Come suggerisce il filosofo romantico francese Jules Lequier: il tuo nome è quello che avrai meritato dalla prova.



Insomma è la libertà che costituisce la struttura di ciascun “io” umano. Siamo portati a darci guerra “ma anche” a stringerci in comunione di intenti. La natura evolvendosi, secondo un disegno intelligente (questo suppone l’autore della riflessione proposta) mostra che i momenti di competizione, se non si vuole far prevalere la distruzione, devono sciogliersi in pace operosa. Ma questo esige appunto la scelta. Il dire di sì o il dire di no. Non si scappa dalla drammaticità della libertà.

Non è affatto ovvio che l’umanità scelga sempre, come invece fa la natura, il passaggio dalla guerra alla costruttività solidale. L’abbiamo ben visto nel secolo scorso: la convinzione che la lotta di classe fosse il motore della storia e la violenza del migliore per razza e cromosomi fosse la maieutica del progresso si è tramutata in oceani di sangue. Così in questo nuovo millennio l’ideologia della finanza, dove si presume che l’interesse del singolo operatore alla fine giovi magicamente all’insieme delle persone ridotte a consumatori, sta trascinandoci nell’abisso, se non ascolteremo le prime parole dette da papa Francesco nel giorno della sua elezione: “Fratellanza!”.



Per questo oggi è urgente che, tenendo conto della componente istintiva che dirige le nostre azioni alla sopravvivenza, e l’altro crepi pure, si faccia prevalere quello che nella storia si è presentato come il fatto di cambiamento perentorio. È impossibile evitare la questione, specie per noi nati in Occidente, figli della tradizione giudaico-cristiana: Cristo morto per tutti, è Dio? Dio è amore? Da questo quesito non si sfugge. Impossibile sottrarsi al sì o al no. Impossibile rispondere “ma anche”.

La tentazione però è di rimandare. Siamo presi dai dubbi, non sappiamo come dirigere la nostra vita. Eppure si deve scegliere. Viene in soccorso un testo di Martin Buber, grande intellettuale ebreo. Il quale raccontò che “uno degli illuministi, uomo assi erudito che aveva sentito parlare del rabbi di Berditchev, andò a fargli visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento di fare scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la verità della sua fede. Entrando nella stanza dello Zaddik, lo vide passeggiare innanzi e indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non prestò alcuna attenzione al visitatore. Finalmente si arrestò, lo guardò di sfuggita, e sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”. L’erudito chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia, tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da udire. Il rabbino Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli in tutta calma le seguenti parole: “Figlio mio, i grandi della Torah, con i quali tu hai polemizzato, hanno sciupato inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci hai riso sopra. Essi non sono stati in grado di porgerti Dio e il suo regno; ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma pensaci, figlio mio, perché forse è vero”. L’illuminista fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel tremendo “forse”, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione”.

Il forse però non è un buon motivo per lasciarci trascinare dai flutti. Occorre allora agire “come se Dio esistesse”, suggerisce Joseph Ratzinger, proprio riflettendo su questo aneddoto. Essendo impossibile negare con certezza Dio, meglio scommettere come chiedeva Pascal su di Lui, altrimenti si muore. E questo, anche senza aver fede, lo dice la ragione che urla nella coscienza di ciascuno.

L’aggressore distrugge il mondo, ma vincendo distrugge anche se stesso. Per una ragione molto semplice, e che il cuore dell’uomo inesorabilmente comunica a noi stessi: aggredire, essere cinici e violenti, primeggiare schiacciando l’altro, non è la verità di noi uomini. Siamo fatti per essere abbracciati e abbracciare, come dicono gli istanti iniziali di ogni vita. Il nostro nome, se vogliamo reggere nella naturale competizione che è la vicenda umana, deve vedere la prevalenza della fraternità, della consapevolezza della comune dignità ed uguaglianza di valore: di ogni singola persona e di ogni popolo. Senza questo vertice, che è il riconoscimento di una comune appartenenza, raccoglieremo solo dolore e morte. L’“homo homini lupus” di Hobbes nel suo apparente assoluto realismo dice solo una parte della verità. Perché noi speriamo altro. Siamo anche questa cattiveria, ma non siamo fatti per accettarla supinamente.

La storia dell’Italia, dal Risorgimento in poi, è lì a dimostrare che siamo cresciuti quando il nostro popolo, e in esso singole genialità, hanno umilmente accettato quel che arriva dalla tradizione vivente della carità operosa inseritasi nella storia con il cristianesimo. E che ha saputo garantire – dopo le eclissi spaventose di guerre e dittature – cooperazione creativa.

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