Caro direttore,
personalmente ho sintetizzato l’esito del referendum di Bologna come una vittoria dell’iperstatalismo contro lo statalismo moderato. Infatti il sindaco di Bologna, pur strenuo sostenitore del sì al finanziamento alle paritarie assieme ad infinite sigle, personalità ed enti autorevoli, diceva nel corso della campagna elettorale e dell’intervista a ilsussidiario.net che “invece di chiedere tutti insieme che lo Stato faccia la sua parte, aumentando le sezioni di scuola dell’infanzia statale o riconoscendo maggiori fondi al Comune di Bologna, si fa una lotta tra poveri per togliere i fondi alle scuole paritarie private”. Lo Stato dunque è il “ricco lontano” da spremere facendo alleanza tra i “poveri” vicini. Che visione ingenua e mitica! Ma quanto era ed ancora è diffusa: per anni tutti l’abbiamo condivisa. Ed ora ne paghiamo le conseguenze.



In questa frase del sindaco di Bologna c’è tutta la linea statalista che dal ’68 gli enti locali hanno seguito nell’espansione delle scuole materne statali. Per alleviare le spese (e le rogne) della gestione del servizio che era totalmente in mano ai comuni o alla chiesa o alle grandi aziende con forte impiego femminile, partì dal basso la richiesta della statalizzazione delle scuole materne. Allora nessuna capiva cosa avrebbe comportato lo statalismo, ed in particolare in Italia. Si vedeva lo Stato come garante dei bisogni e dei diritti e tutti chiedevano allo Stato di intervenire. E lo Stato romanocentrico, carico della specifica situazione della “lunga” Italia, non vedeva l’ora di farlo. 



Passo passo la “scuola” materna statale è diventata un gigantesco cuneo infilato nel territorio e nell’area delicatissima della formazione dei bambini dai tre ai sei anni con supplenza e ingerenza sempre più gravi rispetto al ruolo educativo della famiglia. La mission della materna tradizionale già nella prima metà del secolo scorso era andata lentamente evolvendo: da servizio assistenziale (Agazzi) passò con Gentile a servizio preparatorio all’istruzione, in linea con l’estendersi della potenza dello Stato. Oggi sempre più il vecchio asilo, la vecchia materna, si è trasformata in scuola dell’infanzia  con esplicito e dichiarato ruolo formativo sul terreno identitario, valoriale e cognitivo. Se non ci fosse la crisi forse l’idea dell’obbligo scolastico a partire dai tre anni sarebbe già sul tappetone dei media.



Le famiglie, ovviamente, all’inizio sostennero il tutto per avere un aiuto nella gestione familiare in presenza del crescente impiego delle mamme lavoratrici nelle moderne aziende industriali, ed infatti il servizio fino al ’68 ( primo anno di istituzione delle statali) era quasi esclusivamente al nord. L’espansione della materna statale fu tumultuosa al sud ma riguardò e riguarda ancora oggi solo il mattino, a differenza del funzionamento giornaliero al nord. 

Le condizioni contrattuali privilegiate stabilite dallo Stato nei propri istituti (25 ore settimanali per i docenti, classi minori di 25 alunni, titolo di studio elevato per i “docenti” ecc.) e poi generalizzate hanno anche fatto lievitare i costi generali di tutto il sistema e pian piano il settore non statale è stato compresso. La totale gratuità per gli utenti delle statali inoltre ha fortemente ridotto la domanda sulle non statali. 

In 30 anni a parità di bambini gestiti il numero totale dei docenti è passato da 45mila tutti non statali a 125mila circa di cui 82mila statali, questi ultimi sempre in crescita (dati del 2000). E siamo giunti all’oggi, dove però, giunto al massimo o quasi della potenza, l’enorme debito pubblico costruito dallo statalismo facile ha lasciato tutti in “braghe di tela”. E il “dirittismo” è andato in crisi. Ma proprio la frase del sindaco dimostra che la cultura del dirittismo ingenuo, o irresponsabile, è ancora dominante, e l’estremismo politico che lo esprime compiutamente vince perché appare più coerente.

Anche l’aver definito “scuola” a tutti gli effetti la materna è stato un capitolo di questo statalismo irresponsabile dominante dal 70 al 2000. Si credeva con un trucchetto lessicale (non sincero perché tutti pensavano e pensano che tra i 3 ed i 6 anni sia la famiglia il vero centro formativo e che il servizio pubblico dovesse e debba limitarsi ad aiutare le famiglie impegnate nei giorni di lavoro) di far arrivare risorse statali (percepite come esterne al territorio) sul servizio locale. Ovviamente il centrosud vide anche l’occasione per nuovi posti di lavoro e per l’allargamento della grande graduatoria nazionale anche in quel settore. Oggi tra docenti ordinari, tempo pieno e sostegno siamo intorno ai 100mila addetti statali tra i 3 e i 6 anni. L’ultimo paradosso consiste nel fatto che la negazione del ruolo assistenziale a favore di quello formativo nei programmi statali delle materna ha fatto si che nelle materne statali i periodi di chiusura siano pari ad almeno 3 mesi annui, in linea con le “vacanze” delle altre scuole, creando così alle famiglie lavoratrici il problema dei mesi estivi e dei lunghissimi ponti in corso d’anno. Povere mamme!

Per fortuna santa crisi ha fermato il delirio statalista irresponsabile. Ma la cultura conservativa è inerziale e non vuole cedere. Serve una confutazione massiccia e radicale della visione statalista, fatta con gli argomenti già forgiati e già noti a chi vuole davvero capire (e che Cominelli ha ben illustrato nel suo articolo del 23 maggio su queste pagine).

Solo questa battaglia culturale può sostenere una ormai diffusa quasi-consapevolezza e far maturare politicamente il bilancio storico degli ultimi 40 anni. A Bologna, e ancor meno nel paese, questo non c’è stato abbastanza e gli ingenui o maliziosi “amici dell’ente pubblico supremo” hanno vinto.

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