Intervistata dal rotocalco femminile del «magno Corriere» (Antonio Gramsci), il ministro Carrozza (o: “la ministro”? E perché non, semplicemente: “la ministra”, come usa nel Canton Ticino civilissimo?) ha detto che “serve ripensare sia l’esame [di maturità] sia l’ultimo anno delle superiori” (C. Lacava, “In bocca al lupo, ragazzi! Ma la maturità va cambiata”, Io Donna, 15 giugno 2013).
A forza di pensare e ripensare, direbbe Claudio Magris, si finisce all’Ade; non per caso, la “botta” di caldo, che rese vieppiù atroce lo svolgimento della prova scritta di mercoledì 19, fu battezzata “Ade” dagli specialisti di onomastica meteorologica. All’Ade, è finito anche il programma di italiano svolto a scuola. È lecito chiedersi perché si svolga un programma e poi si imposti l’esame su tutt’altro. Sadismo? Forse, invece di Magris, sarebbe stato più gradito Enzo Jannacci (“e vedere di nascosto l’effetto che fa”).
Non è così, ribattono indignati gli esperti. Da vari punti di vista si osserva infatti che la maturità ormai non si può più verificare sulla base delle nozioni apprese, ma calibrando la capacità del/la candidato/a di orientarsi, ragionare, applicare, creare, inventare, escogitare… in breve: di “saper fare”. Per lo studente emerge così un’impresa ben più faticosa del tradizionale “studiare”. Per “saper fare” servono competenze sui procedimenti da impiegare; ed è forse necessario persino comprendere che cosa si stia facendo.
Così, per esempio, è utile chiedersi che cosa significhi, per gli studenti, “commentare le tracce” d’esame. Fare riassunti? Esprimere opinioni, meglio se sono campate per aria? O basta scrivere tanto tanto? Avranno imparato a progettare e a costruire ragionamenti corretti? Disporranno di strumenti per verificare la fondatezza empirica dei dati che vengono loro presentati per la discussione? Se così non fosse – cioè, se non avessero imparato a ragionare e a verificare le basi empiriche dei dati, se non avessero accumulato una quantità ragionevole di conoscenze nei vari campi del sapere – non sarebbero in grado di sostenere prove d’esame così difficili: perché le prove d’esame uscite in questi giorni sono davvero difficili e impegnative.
A meno che non si prendano alla leggera, come se fosse un “cut and paste” prima dello happy hour. Facendo sul serio, tali elaborati non si preparano meccanicamente, assemblando materiali in modo acritico, senza basi metodologiche. Non pochi studenti, posti di fronte ad affermazioni per nulla scontate di qualche “guru”, si inchineranno a cotanto senno (perché non hanno imparato che argumentum ex auctoritate infirmissimum…) e riprenderanno la citazione, magari con una parafrasi, senza discuterla.
Non a questo mirano tali prove d’esame. Ma il rischio che si finisca così c’è. Certo, sarebbe scandaloso se, invece di Claudio Magris o della Martha Nussbaum (che dice cose belle e note persino a chi non abbia letto il suo libro, con prefazione di Tullio De Mauro, uscito per il Mulino nel 2011) si fosse citato Sergio Ricossa, proponendo una riflessione su un passo come il seguente: “La Costituzione italiana ammette tutto, proclama che l’iniziativa privata è libera, ma aggiunge che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Poiché l’utilità sociale è ciò che vogliono i partiti al potere, l’iniziativa privata è costituzionalmente fottuta se al governo vanno i comunisti. Quesito: a che servono le Costituzioni?”. Sarebbe davvero liberatorio, per gli studenti, potersi esprimere in modo anche anarchicamente corrosivo. Ma ne sarebbero capaci? Riuscirebbero a contestualizzare l’affermazione (oggi, è noto, i comunisti non ci sono più …)? E, soprattutto: avrebbero il coraggio di esprimersi liberamente, temendo bocciature causa pensiero non conformista?
“O Freunde, nicht diese Töne!” Basta con questi esami! Qualcuno suggerisce di toglierli; dicono che servano solo a dare un titolo con quel valore legale che si potrebbe abolire senza danno per gli studenti. Non sarebbe meglio sostituire gli esami finali con quelli iniziali? Niente prove alla fine della scuola da cui si vuole uscire (abire, da cui abiturus, che in tedesco ha dato Abitur, nome dell’esame conclusivo dei licei di Germania); facciamo le prove in università o nelle aziende, dove si vuole entrare. Queste ultime allestiranno corsi di preparazione, a pagamento (nessun pasto è gratis, diceva Milton Friedman: se non si paga, è perché i soldi li mettono i contribuenti). Ovviamente, qui si scherza (bisogna dirlo: altrimenti si rischiano reprimende).