Solo 50 anni fa l’iter scolastico della grande maggioranza della popolazione consisteva nella frequenza delle elementari e poi di due o tre anni di scuola professionale.

Chi si incamminava sulla via del diploma o dell’università cercava un modo per sottrarsi al triste destino del lavoro duro e del salario basso. Era dunque naturale, e non sentito come un abuso, il fatto che nelle scuole superiori ci fosse una forte selezione e che esistessero degli standard di valutazione e di apprendimento empirici calibrati su una frazione di giovani molto motivata allo studio ed anche, generalmente, abbastanza o molto incline allo studio stesso salvo che per i figli  “degeneri” del ceto medio, che per continuità familiare erano obbligati anche controvoglia al diploma o alla laurea, con tutte le conseguenze, i trucchi e le vicende che la cronaca ci ha insegnato.



Ma quando negli anni 60 l’accesso alle scuole secondarie superiori divenne di massa le cose cambiarono radicalmente. Un compito in classe in cui la maggioranza della classe risultasse insufficiente veniva visto come una prova della incapacità del docente di gestire l’apprendimento degli alunni o della aristocratica arbitrarietà della “pretesa” nozionistica. Sicuramente la gran massa del corpo docente storico non aveva dell’apprendimento la visione caricaturale dipinta dai professionisti dell’antinozionismo. Tutti o quasi sapevano e dichiaravano che il sapere andava assimilato e metabolizzato. Nel tempo, magari in una vita.  



Ma la pressione di massa, quando si determina, non bada ai dettagli. Scattò quindi in tutta la scuola (e perfino all’università) la gigantesca lotta al “nozionismo” che in realtà mascherava la lotta contro la tradizionale valutazione selettiva che nelle nuove condizioni equivaleva alla bocciatura di massa.

Ad esempio quando nel ’60 io mi iscrissi al nuovissimo Itis di Brescia, nella classe prima eravamo in 36 alunni. Dopo 5 anni ci trovammo in quinta in 6 di cui solo 2 non erano mai stati rimandati ad ottobre.

Il corpo docente in rapida e tumultuosa espansione nel frattempo subiva continui innesti di giovani estranei alla tradizionale “ontologia professionale” ed aumentava rapidamente il numero di coloro che confutavano l’enormità delle bocciature. È una storia piena di episodi gustosissimi ma a volte anche tristissimi e perfino drammatici sia sul fronte alunni che su quello docenti.



Ineluttabilmente, con l’accesso nelle aule di tutta la popolazione giovanile, l’asticella del risultato atteso sul piano dell’apprendimento dovette essere costantemente abbassata. Le sacche di resistenza furono innumerevoli e ci sono ancora, con la presenza nella stessa scuola di classi in cui non si bocciava nessuno accanto a classi dove si bocciavano 7 o 8 alunni, con il preside generalmente schierato per la promozione ma con un malinconico rimpianto quasi generalizzato per i tempi in cui a scuola “si insegnava e si imparava davvero”.

La situazione attuale tipica della modernità nei paesi europei in cui il giovane studia generalmente almeno fino a 18 anni si è configurata quindi in mezzo a controversie infinite, connotate da potenti risvolti politici.

Ma stranamente l’argomento della inevitabilità della scomparsa della bocciatura, come strumento ordinario di gestione dei percorsi di apprendimento, non è mai stato portato all’aperto esplicitamente anche se ogni anno si sprecano i commenti alle statistiche ministeriali sulle ripetenze. Il ministero non ha mai scritto ai suoi dipendenti un documento esplicito su questo, lasciando come sempre ai singoli ed ai media la responsabilità del governo delle scuole. 

C’è lo scontro tra i sostenitori della scuola “comprensiva” e di quelli della “scuola del merito” ma il tema della quantità delle bocciature sopportabile nella vita ordinaria del giovane moderno non emerge. Eppure basta porre questo tema per giungere facilmente alla conclusione che nella carriera scolastica di un giovane può esserci normalmente una ripetenza ma non di più. 

Il prevalere dell’importanza della crescita lineare nel gruppo di pari età rispetto al possesso di minimi livelli di apprendimento risulta universalmente, anche se tacitamente, riconosciuto. Una prova lampante sta nel fatto che, in base alle norme ministeriali vigenti, lo straniero che si presenta senza documenti scolastici pregressi e senza sapere una parola di italiano in una scuola italiana viene inserito nella classe dei pari età o al massimo nella classe di un anno in meno.

E nessuno, che io sappia, confuta questo criterio.

È chiaro quindi che anche  l’esistenza di standard di apprendimento minimo condivisi (cosa che oggi non avviene nonostante Invalsi) non può sostituire la decisione “politica” della promozione. E la minaccia della bocciatura sulla neghittosità dell’alunno problematico è troppo anacronistica da un lato ed inefficace dall’altro. È come la minaccia del calcione da parte di un genitore.  Da tutto ciò scaturisce l’essenzialità dell’attivazione vera di percorsi scolastici realistici basati sulle caratteristiche (con tutte le differenze interne) del giovane reale di oggi e delle necessità di dare sbocchi sia alla fascia 1 dei più bravi e motivati allo studio astratto, sia all’apprendere facendo, indispensabile per almeno il 50 per cento dei giovani a cui solo l’alternanza scuola lavoro o simili può dare risposta.

Ma una volta fatto anche tutto questo (e sarebbe un salto enorme) rimarrebbe il tema dell’attivazione ordinaria delle attività di recupero mirato. Chi conosce davvero la classe attuale, la sua composizione interna e le sue dinamiche, sa che esistono livelli molto diversi, situazioni di arretratezza endemiche accanto a situazioni di calo occasionale dovute alle circostanze della vita, per cui la quantità di giovani che fatica molto a tenere il ritmo medio di apprendimento ed ha grandi difficoltà di organizzazione, di memorizzazione, di iniziativa, di relazione, si aggira intorno al 25 per cento.

Nelle scuole primarie o secondarie di primo grado da decenni si censisce, si nomina, si blandisce, si teme, si studia la famosa fascia 4. Ma assolutamente non basta. Ci vuole una consistente quantità di tempo docenza (1/4 del totale andrebbe bene) da dedicare al tutoraggio ed al recupero della fascia 4.

Le disposizioni attuali che consentono legalmente la riduzione fino al 20 per cento del tempo scuola a classe intera, rimanendo in linea col curricolo nazionale essenziale, permetterebbero la generazione di un consistente avanzo. Ma la clausola della ricaduta uguale su tutti gli alunni del tempo docenza avanzato ha impedito ed impedisce di usarlo ai fini, pur esaltati a parole, del recupero. Cosa strana e incredibile, nel paese della mistica degli ultimi non si può nella scuola dedicare tempo docenza ordinario “agli ultimi”. E soldi per ore straordinarie dedicate a ciò non ce ne sono e non ce ne saranno per decenni, ammesso che ci siano insegnanti “del mattino” interessati a svolgerle in tutto il corso dell’anno. Queste ultime  considerazioni pongono ancora una volta il tema ineludibile della figura dell’insegnante a tempo pieno.

La separazione della valutazione e della certificazione dalla bocciatura è la via necessaria e ormai quasi inevitabile per concentrare la scuola ed il personale docente sul lavoro realistico, formativo e orientativo, davvero utile ed efficace per i giovani e per il paese.