Narrano le storie di epiche estati che il commissario d’esame Carducci passò a Desenzano, senza farsi mancar nulla dei comfort gardesani. In ere più prosaiche, certi docenti raccomandati riuscivano ad essere destinati a prestigiose località turistiche, dove forse si dedicavano più alla nota spese che alle note didattiche.
Il presente è molto più arduo, per il commissario esterno. Un budget striminzito ha cancellato le lunghe trasferte. Si è nominati in una delle scuole più vicine, spesso la stessa quasi ogni anno, magari ci si è insegnato in tempi recenti. Si sanno vita, morte e miracoli della maggior parte dei colleghi, dei segretari e pure dei bidelli. Si sa tutto, tranne che l’effettivo lavoro svolto nelle classi e i cui risultati si dovranno giudicare.
Nei lontani tempi del mito le commissioni esterne davano l’idea di distacco ed imparzialità. Avevano l’interessante ricaduta di confrontare i docenti con realtà sociali e territoriali distanti dalla propria: forse l’unica attività di aggiornamento in servizio che la Pubblica Istruzione abbia mai efficacemente attivato.
Erano tuttavia conformi al modello centralistico, bonapartesco-gentiliano, in cui i programmi si volevano identici in tutte le scuole del Regno, la didattica era puramente trasmissiva, i libri uniformi per generazioni.
Il commissario esterno che oggi percorre poche miglia trova invece una scuola autonoma – almeno di nome – che gli si presenta con un sontuoso Documento del Consiglio di Classe, vulgo nomato “delquindicimaggio”, in cui raccoglie le virtù della propria didattica. Dovrebbe leggerlo con molto anticipo, per capire dove sia finito: ma siccome lo sa già, solo se è molto curioso o alle prime armi lo guarda con attenzione. Vi cerca però qualcosa che non ne fa strettamente parte se non come allegato, cioè i programmi svolti, e qui iniziano le perplessità.
Nessuno, infatti, dice come si debba descrivere al mondo il proprio lavoro. Ci sono paginette che liquidano un anno in poche righe, ognuna delle quali starebbe nei fatidici 140 caratteri; altre invece così dettagliate e minuziose da pensare che solo per compilarle ci siano voluti mesi di lavoro (a meno che, dice qualche malizioso, la declaratoria del programma non coincida con quel che è stato detto in classe, come la mappa di Borges).
Pochi sono i colleghi che ti spiegano almeno in che modo si sono poggiati al libro di testo o ad altri materiali, qual è stato il taglio del corso in funzione della classe, delle esperienze integrative, del confronto con i colleghi o di altre contingenze. Il commissario esterno tira ad indovinare: che domande formulare nella terza prova, quali altre nel colloquio; come valutare le risposte e come contestualizzarle. Meglio la banalità dell’acqua bassa o il rischio dell’inutile strage?
In questi giorni abbiamo già iniziato i colloqui o stiamo per farlo. Anche qui ci sono dinamiche ormai note ma che la norma finge di ignorare.
Il rito dell’invecchiata “nuova maturità” impone di registrare le proposte di voto appena il candidato se ne va. Supponiamo che la regola sia rispettata: gli studenti della prima mattinata ne ricavano un bonus di fiducia, perché anche a chi ostenta la propria infallibilità serve un certo rodaggio, per prendere le misure della classe. I primi voti restano contenuti: forse a scapito dei migliori, ma certo a favore dei meno brillanti. Dal ’99 in poi non mi è mai capitato di vedere o sentir dire che il primo candidato di una commissione sia stato bocciato, per scarso che fosse. Ma quando si saran visti tutti i candidati non si potrà − come è successo nei giorni scorsi con gli scritti − ritornare indietro sulle prime correzioni e ripensare qualche voto messo a matita. Nemmeno se le due classi su cui lavora la commissione fossero così diverse che persino il lavoro fatto in parallelo da uno stesso docente dia risultati poco confrontabili.
Il nostro incerto giudizio avrà però un esito più indelebile di un marchio a fuoco, perché i diplomati potranno poi cambiare coniuge, nome e sesso, ma mai il voto dell’Esame di Stato. Sarà poca cosa, ma non mi piace sbagliare il marchio sulla pelle altrui.
Finché questa anacronistica finzione non sarà sepolta insieme al “valore legale del titolo”, una speranza per un giudizio più equilibrato potrebbe venire dai ragazzi del ’99. Non quelli del Piave: i giovani colleghi, ormai numerosi nelle commissioni, che sono nati nell’80 ed oltre e che quindi han visto solo questo modello di esame, con griglie e punteggi e bonus. Che non possono rivangare seconde materie scambiate, commissari calati da chissadove, voti che raramente sfioravano l’8 (il 10? mai sia!).
Mi piacerebbe che in tutte le commissioni ce ne fosse almeno uno/a, “esterno” nel senso originale: ormai anche loro han passato la trentina, sono esperti ma entusiasti e meno omologati, siedono per le prime volte da questa parte della fila di banchi. Possono portare un sorriso più fresco ed un po’ di vitalità nei nostri giudizi snervati.