I risultati di alcune ricerche condotte in Italia nelle ultime settimane suggeriscono che non vi è più nessuna correlazione positiva tra lo studio e il lavoro, o peggio, tra il livello d’istruzione dei nostri giovani e la possibilità di trovare un’occupazione più o meno stabile, compresa quella “tanto sognata” di spazzino. Non è così, perché tutte le ricerche internazionali nei Paesi Ocse e diverse evidenze empiriche dimostrano che nel medio periodo un maggiore grado d’istruzione aiuta a trovare o ad inventarsi il lavoro e la stessa retribuzione risulta essere mediamente più alta.



Anche per quanto riguarda la situazione italiana, nel recente Rapporto Istat 2013 si sostiene che “Nel nostro Paese il rendimento dell’investimento in istruzione risulta ancora basso, nonostante che la laurea molto più del diploma stia costituendo una forma di assicurazione contro le crescenti difficoltà del mercato del lavoro. Il vantaggio in termini occupazionali di un titolo di studio terziario rispetto a quello di scuola secondaria superiore è elevato e più evidente in Italia rispetto agli altri Paesi, sia per i giovani uomini che per le giovani donne”. Si tratta, dunque, di rispondere a questa sfida ricordando che il livello di sviluppo di un Paese dipende sempre più dalla cultura e dal grado d’istruzione della popolazione; per questo è necessario sfatare il falso mito che studiare non serve. In questa direzione, come sottolinea Hanushek, uno dei maggiori studiosi di sistemi educativi: “In questo periodo di crisi ci concentriamo sul presente ma non pensiamo al lungo periodo. Dobbiamo invece occuparci di più del nostro futuro (…). Il futuro dipende esclusivamente dal capitale umano di un paese, sono le competenze delle persone che fanno la differenza e la qualità è strettamente connessa alla qualità delle scuole. Ciò comporta che migliorare l’istruzione dei nostri figli significherà apportare cambiamenti importanti nelle scuole, ma sono proprio i sistemi scolastici che non vogliono cambiare, senza pensare che questo porta a ripercussioni drammatiche sul futuro dei nostri figli”.



Per rispondere adeguatamente a questa sfida, come ha affermato il ministro dell’Istruzione Carrozza “servono risorse”, ma non è necessario elaborare ennesime prodigiose riforme, occorre un preciso impegno strutturale per rilanciare lo sviluppo economico, a partire dall’industria manifatturiera, e dare attuazione a norme già esistenti nel nostro ordinamento scolastico, come quelle relative all’implementazione dell’autonomia scolastica, allo scopo di conseguire alcuni significativi risultati con il concorso responsabile di tutte le componenti della comunità scolastica, dai docenti, agli studenti e alle famiglie.



Del resto, come dimostrano le indagini Ocse degli ultimi anni, i Paesi che conseguono i migliori risultati educativi hanno sistemi scolastici basati proprio su questi principi e puntano ad un responsabile coinvolgimento di tutti gli attori, compresi quelli del sistema istituzionale e produttivo locale.

Al contempo, tali indagini evidenziano alcune “distorsioni” del nostro sistema scolastico, sulle quali, nel nuovo contesto politico istituzionale, sarebbe necessario attivare un’accurata riflessione, relativamente alle seguenti criticità: la necessità di ottimizzare la spesa complessiva per l’istruzione; l’estensione e il consolidamento dell’autonomia conferita alle istituzioni scolastiche; la revisione di obiettivi, programmi, tempi e metodologie didattiche, in funzione del miglioramento dei risultati degli apprendimenti rilevati dalla ricerca Ocse Pisa; la remunerazione e valorizzazione del lavoro degli insegnanti; la riduzione drastica della percentuale di dispersione scolastica.

In questo quadro così composito, è possibile individuare sei azioni strategiche verso le quali sarebbe necessario orientare tutti gli sforzi e le risorse disponibili:

A) elaborare un nuovo Testo Unico della legislazione scolastica, che elimini sovrapposizioni e prescrizioni contraddittorie su varie materie, e aggiornare le norme che regolano il funzionamento degli Organi collegiali interni e territoriali;

B) rendere più funzionale il riparto di competenze tra Stato e regioni previsto dal Titolo V della Costituzione;

C) costituire un organico d’istituto, funzionale alla progettazione e gestione del ciclo scolastico;

D) avviare un sistema di valutazione di sistema, che analizzi i diversi livelli di performance, dagli apprendimenti degli studenti a quelli dei docenti, fino ai risultati del dirigente scolastico e dell’istituto, formalmente e sostanzialmente autonomo dal Miur;

E) dare vita a progetti mirati al contrasto alla dispersione scolastica, alla formazione dei docenti e alla diffusione delle nuove tecnologie e al consolidamento di metodologie didattiche interattive;

F) estendere e consolidare una politica organica di orientamento permanente che rilanci il ruolo della formazione tecnica superiore e coinvolga, con maggiore responsabilità e consapevolezza, studenti, famiglie, docenti, istituzioni e sistema produttivo, allo scopo di ribaltare il paradosso del job mismatching (non incontro tra domanda e offerta di lavoro) costituito da oltre 45mila posti di lavoro non “coperti”, in particolare nel settore del commercio e dei servizi, dove nel 47,6% dei casi nessuno si è presentato ai colloqui di selezione e nell’altro 52,4% i candidati non possedevano i requisiti richiesti. 

In definitiva, si tratta di affrontare una questione strategica per il futuro del nostro Paese, non solo per i giovani e le future generazioni, che dovrebbe spingere i massimi responsabili nazionali di questi fenomeni, il ministro dell’Istruzione, della Ricerca e dell’Università, il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali e il ministro dei Beni culturali ad avviare una forte azione politica e culturale tesa a rilanciare il ruolo strutturale della cultura e dell’istruzione a favore dello sviluppo, attraverso un coinvolgimento diretto e consapevole degli studenti, delle famiglie, degli attori istituzionali regionali e locali, del sistema produttivo e delle stesse forze sociali.