Assai utilmente questo giornale ha dato spazio a un dibattito a molte voci sui test Invalsi, incrociando punti di vista di tecnici, di pedagogisti, di insegnanti: un aiuto a superare una strana censura per cui nelle scuole non se ne parla. O meglio, se ne parla dal punto di vista organizzativo, magari sindacale, non culturale, quasi che l’estendersi progressivo di questo tipo di prove fosse culturalmente neutro o che si avesse paura di scoperchiare la pentola. C’è chi è convinto del loro valore proattivo e mal sopporta che si eccepisca e si chieda di approfondire, tendendo a leggere qualunque esitazione pensosa come difesa corporativa di insegnanti che temono di vedere, nero su bianco, che voto merita il loro lavoro; c’è chi al contrario disapprova o teme, ma reagisce circoscrivendo il più possibile l’argomento, trattenendolo nella stanza di contenzione di una fastidiosa e poco significativa incombenza: meno se ne parla meglio è, approfondire potrebbe accrescere importanza, fornire linfa al mostro.



Proviamo invece a guardarlo da vicino, il mostro, almeno in una delle sue facce, quella della prova di italiano del biennio (anzi, dimenticavo: primo biennio) delle superiori.

Per essere precisi partiamo dalla copertina: “Rilevazione degli apprendimenti – Prova di italiano”. Su 23 pagine di quesiti, 20 sono dedicate (salvo poche domande più generali di lessico) alla comprensione del testo, ovvero, più precisamente, a verificare quanto l’allievo sappia desumere dal testo medesimo le informazioni in esso effettivamente contenute. Niente da dire, per farlo deve evidentemente conoscere la lingua e soprattutto usare la logica. Le ultime tre pagine contengono  quesiti dedicati alla grammatica: dieci in tutto (anzi nove, perché uno è di retorica), per analisi grammaticale e logica, lessico, ortografia, punteggiatura.



Prima questione: i testi su cui sono costruiti i quesiti delle prime venti pagine sono di varia quotidianità e attualità (uno solo è letterario, ma la letterarietà non viene messa a tema); due sono di carattere piuttosto tecnico e chiedono di interpretare dati numerici e tabelle. Su di essi si è chiamati ad eseguire esercizi di tipo logico che richiedono una conoscenza meramente generale della lingua oppure di sapersi destreggiare con lessici specifici di ambito statistico-economico. Si tratta di conoscenze ed operazioni che non sono più tipiche dell’italiano (inteso come materia scolastica) che di qualunque altra disciplina. In che senso dunque fanno parte della prova “di italiano”? 



Forse sarebbe più giusto definire questo insieme non “prova di” ma “prova in” italiano. E non più chiara appare, in questa prospettiva, la dicitura “Rilevazione degli apprendimenti”, almeno in quanto “apprendimento” presuppone una serie di azioni consapevolmente messe in atto da qualcuno perché qualcun altro ottenga un certo risultato, con certi strumenti e in un certo periodo di tempo. 

Sarebbe meglio allora parlare di “rilevazione delle competenze”, comprendendo così tutto l’insieme degli stimoli e delle occasioni che conducono un sedicenne a sapere e saper fare certe cose. Detto schiettamente, e magari brutalmente: per prepararsi a prove di questo tipo nulla di ciò che si studia attualmente a scuola è di particolare utilità. Probabilmente sarebbe più funzionale abbonare gli allievi a un settimanale di attualità e a un buon periodico di enigmistica: vi troverebbero tutto l’occorrente per le prime venti pagine del test Invalsi di italiano, con enorme risparmio di tempo e denaro. 

Seconda questione, la sezione dedicata alla grammatica. Che dire? Mi pareva di ricordare che un solo quesito, quantunque composito, sia un po’ poco per estrapolarne una quantità di conclusioni statistiche sulla conoscenza di un certo argomento. Nella mia ingenuità, credevo che per eseguire rilevazioni o misurazioni degne di fede e che si possano ammmantare di un qualche paludamento scientifico occorressero intere batterie di quesiti; qualcosa di diverso, insomma, dall’esercizio sui tempi verbali che la maestra ci assegnava per il giorno dopo, qualcosa di più complesso perfino delle famigerate verifiche “di verbi” (italiani, inglesi, latini, greci) che medie e biennio hanno lasciato nella memoria di tutti… E invece mi sbagliavo: un esercizio di completamento con quattro voci verbali quattro è sufficiente per elaborare sofisticate proiezioni che ci diranno di tutto, sulla conoscenza dei verbi da parte degli studenti italiani, sulla qualità della scuola che hanno frequentato (quale? quella elementare, dove i verbi sono oggetto di insegnamento, la media, la superiore, tutte quante?), sugli effetti incrociati di scuola, provenienza geografica, estrazione sociale, grado di scolarità dei genitori…

Dalla stupefatta ammirazione per la grandiosità della scienza statistica mi riscuote però un dubbio: se le cose stanno così, se bastano in fondo pochi dati per sapere milioni di cose, perché non si fa il contrario? Perché non si propone un test molto più articolato a un gruppo di scuole all’anno, o a una classe all’anno per ogni scuola? Invece che trarre mirabolanti proiezioni da tre informazioni per alunno, perché non trarle da moltissime informazioni ottenute da una classe per scuola? O da tre scuole per provincia? Perché non farlo un anno sulla grammatica, un anno sul lessico, un anno sulla comprensione dei testi? 

In breve, esiste la statistica? Se esiste, ed è un prodigioso strumento per trarre moltissimo dal poco, perché bisogna sottoporre a test ogni anno tutti gli studenti? Per rilevare qualcosa o per inculcare un’idea? L’idea, per esempio, che il sugo della scuola stia nell’insegnare a estrarre con esattezza le informazioni contenute in qualunque testo e solo quelle? Con inevitabile progressiva svalutazione, va da sé, di altre operazioni, come giudicare se un testo sia bello o brutto, o dica cose giuste o sbagliate. Sento già l’obiezione: “Ma non è certo il test Invalsi a impedirti di fare anche quello!”. Anche, appunto, anche. 

Su questo giornale un docente ha proposto giuste osservazioni sull’ambiguità di fondo che l’estensione universale (scusate: censuaria!) dei test tende a introdurre nella valutazione. Probabilmente, oltre che il problema della valutazione c’è anche quello della svalutazione. Della svalutazione strisciante di ciò che, in un’epoca che della misurazione sta facendo un idolo, si ritiene non valga la pena di misurare.

Un’ultima nota. Maggio era il mese di Poliziano. Ora è il mese preso d’assalto dalla burocrazia: dichiarazione dei redditi e, per gli insegnanti (tra le pochissime categorie che annoverino cultori del Poliziano), documento per l’esame di Stato e prove Invalsi. 

Un esercito di laureati ha trascorso interi pomeriggi a inserire a sistema i dati delle prove, ovvero a ricopiare ventitré pagine di risposte per alunno. Attenzione, non a correggere (questa funzione, che ancora esige un minimo di attività neuronale, è richiesta in misura minima), a ricopiare: A1, clic, D3, clic, 2C, clic… per ventitré pagine, per trenta fascicoli. Confesso che non l’ho presa bene. Immersa nel brusio dell’aula di informatica sentivo crescere l’angoscia. Ho anche tentato l’autocritica: “Ecco la tua componente borghese, più grande del previsto, che subito piagnucola e si ribella… che dovrebbero dire quelli che passano la vita alle catene di montaggio?” Chissà se avevano pensieri simili a questi gli intellettuali rinchiusi nei campi di rieducazione dalle rivoluzioni del secolo scorso? E intanto tutti quanti si procedeva, esercito sussurrante di formiche impegnato a procurare dati a un gruppetto di maghi dei numeri.

Magari esagero, ma non riesco a credere che chi ha congegnato una simile macchina irrispettosa degli insegnanti abbia davvero rispetto per gli studenti. Sbaglierò, ma non riesco a crederlo.