La fine della scuola coincide con l’inizio degli scrutini, un tempo nel quale il tema della valutazione diventa il cuore di ogni considerazione e preoccupazione di presidi, docenti, studenti, genitori.

Attraverso la valutazione, in poche parole, tutti veniamo valutati: anzitutto gli studenti, ovviamente, ma anche i docenti, perché è sulla valutazione che si espongono al giudizio altrui, eppoi i genitori, per l’ansia sui risultati dei propri figli. Ma anche i presidi sono coinvolti, per la loro diretta responsabilità nell’assegnare i docenti alle varie classi. Valutando, insomma, si è tutti valutati.



Non solo. Perché l’assegnazione di un voto non può essere ridotta a mero calcolo algebrico di alcune prestazioni o performance. La valutazione, anzi, implica aspetti che non possono essere confusi con i risultati su questa o quella materia. In gioco vi è la maturazione di personalità, quella dei giovani d’oggi, che non sempre si trovano a proprio agio con le tante indicazioni e distrazioni del vivere odierno. È, insomma, più difficile essere giovani oggi rispetto solo a pochi anni fa.



Se i giovani dunque vanno spronati, stimolati, spinti perché intendano la maturità come incontro consapevole della libertà con la responsabilità, dall’altro sappiamo che, in molti casi, mancano di solide famiglie alle spalle, cioè adulti significativi che siano punti reali di riferimento per la loro ricerca di valori e di un positivo progetto di vita.

Che cosa può fare la scuola? Tenere sempre a mente lo sfondo educativo di ogni atto cognitivo, perché gli aspetti non-conoscitivi per i nostri giovani sono più importanti delle stesse discipline insegnate. Prima che di docenti i nostri ragazzi hanno bisogno di maestri, cioè di persone adulte che li sappiano entusiasmare, che comunichino passione e senso del sacrificio. Sono aspetti centrali della vita della scuola (“clima di classe”) e del rapporto tra scuola e famiglie.



Il voto di condotta, per questo motivo, non potrà più essere assegnato con leggerezza, come il voto in una materia non potrà più essere usato come forma più o meno esplicita di controllo sugli studenti, cioè voto di condotta camuffato.

La maggior parte dei docenti, ce lo possiamo dire, vive con positività il proprio ruolo di insegnante. La forza della scuola è legata proprio al fatto che gran parte dei docenti sente come prioritario questo ruolo educativo, e solo una piccola parte non si lascia coinvolgere, preferendo un atteggiamento più distaccato.

Il tema della valutazione, dunque, non può essere limitato ai soli rilievi sul voto di condotta o sui risultati dei compiti e delle interrogazioni.

Entra qui di prepotenza, perché imposta dalla realtà, la questione del merito, cioè della valutazione non solo delle buone intenzioni, della buona volontà, della ripetizione più o meno mnemonica della lezione dell’insegnante o della pagina del manuale. Conta l’effettiva preparazione, contano le competenze su determinate questioni che i ragazzi devono dimostrare. Come si fa a valutazione questo valore aggiunto? Verificando oltre al “che” delle unità didattiche proposte, soprattutto il “perché” delle stesse, la ragion d’essere e la sua struttura logica, oltre che la sua “traduzione” esperienziale o laboratoriale.

Basterebbe togliere da subito il valore legale del titolo di studio (prossimo passaggio riformatore) e si vedrebbe se davvero un ragazzo è preparato, al di là del voto più o meno generoso da parte di un docente di questa o quella scuola. Conta un pezzo di carta o l’effettiva preparazione? Già l’università non si fida delle votazione degli esami di maturità, tant’è che in molti casi organizza i test d’ingresso.

Ma il paradosso della scuola è più a monte: in un sistema centrato sulla valutazione, dei docenti sugli studenti, tutti dovrebbero essere valutabili, mentre, di fatto, al limite vi è solo l’autovalutazione da parte del collegio dei docenti (tipico caso di conflitto di interesse), mentre la valutazione esterna (sul sistema scuola, ma anche sul preside, sui docenti e sul personale ata) viene guardata con diffidenza se non con rigetto. Mentre le università, almeno, si sono date un nucleo di valutazione.

Il merito, dunque. Più invocato che praticato, preteso agli altri ma, in troppi casi, negato per se stessi. Ma qualcosa si muove: penso qui al Progetto Vales, alle prove Invalsi, unici veri passi in avanti della scuola in termini di comparazione dei risultati.

Quando si dice merito, è giusto ripeterlo, si deve intendere responsabilità. Verso gli altri, e verso se stessi. 

Grazie a Dio, siamo ben lontani da una prassi americana: a New York gli studenti migliori, dopo ogni test, hanno diritto a ricevere del denaro come ricompensa dei bei voti. Test dopo test, in un anno un bel gruzzoletto. Giusto non condividere questo modello utilitaristico. Perché la cultura è altro. La bravura non è cioè un algoritmo matematico, perchè comporta valori umani prima che cognitivi, per cui è meglio lo stimolo “indiretto”, oltre ai bei voti: borse di studio, stages-premio, collaborazioni tra scuole e università, promozione di sistemi trasparenti di selezione, diffusione di buone prassi italiane ed estere.

La vera sfida della scuola è quindi più a monte: è la motivazione gratuita (non si studia per il voto!), cioè il reale coinvolgimento dei ragazzi, ed i migliori docenti sono quelli che spingono i propri ragazzi a sviluppare interessi e attitudini. 

Il che significa che un ragazzo intelligente non studia per un voto, ma è in virtù dello studio che può ottenere anche un ottimo voto. Strumento, ma non fine. Si studia, cioè, per il gusto del sapere. Chi coglie questo ha già compreso cosa voglia dire gustare la vita come ricerca di valore, di senso, come vocazione e responsabilità verso il bene di tutti, e non solo di se stesso. Se avviene questo, la scuola ha davvero assolto al proprio compito educativo e sociale.

Sfruttiamo/valorizziamo dunque la creatività dei nostri ragazzi (tutti sono intelligenti, pur nella diversità del loro essere), il loro talento e soprattutto la capacità/disponibilità a prendere in mano il proprio futuro, senza aspettare che sia qualcun altro a deciderlo per loro.