Nei giorni scorsi ha fatto il giro delle redazioni dei principali quotidiani italiani una lettera (che si è poi rivelata falsa) firmata da una finta commissaria agli esami di maturità che rivelava la richiesta di un genitore perché il figlio fosse bocciato, così da “salvare” il posto di lavoro. Alcuni giornali l’hanno anche pubblicata, salvo poi dover procedere alla rettifica dopo che i promotori dell’iniziativa hanno svelato l’inganno.



La richiesta del presunto padre è solo in apparenza paradossale e assurda. Per coglierne l’aspetto volutamente provocatorio va posta in relazione alla norma contenuta nel decreto sull’occupazione approvato dal Governo che dispone facilitazioni fiscali a favore delle imprese che assumono persone che, oltre ad altri requisiti, sono sprovviste di diploma di scuola secondaria.  



La decisione di privilegiare nelle future assunzioni la bassa scolarità – o addirittura la non scolarità – è spiegata con la necessità di sostenere le fasce deboli della popolazione che più duramente pagano l’attuale crisi economica e, in particolare, quelle persone che a causa della loro precarietà o insufficienza formativa si trovano in maggiore difficoltà a trovare un lavoro. 

Non sono pochi questi casi, al sud come al nord. Oggi si stima che in Italia ci siano oltre 2,5 milioni di sottoscolarizzati in età produttiva e che circa il 30% degli Italiani (compresi purtroppo molti giovani che pure sono andati a scuola per almeno otto anni) abbia scarsa capacità a maneggiare gli strumenti più elementari del sapere e cioè quelli che un tempo erano ricompresi nella formula “leggere, scrivere e far di conto”. 



Alla luce di questi dati sembra di poter dire che – nella migliore e più ragionevole delle ipotesi – il Governo abbia scelto di operare più in una logica “assistenziale” che compiere una scelta di sviluppo.

Pur tenendo conto di questa attenuante, si tratta tuttavia di una decisione che lancia segnali negativi in varie direzioni. Forte e netto è l’implicito messaggio negativo verso la scuola e l’istruzione, come se lo Stato dicesse: “Meglio se sei andato a scuola, ma pazienza se non hai continuato a studiare, qualcosa rimedierai lo stesso”. Anzi, in questo caso, vengono “premiati” proprio coloro che a scuola non ci sono andati, l’esatto contrario dei propositi meritocratici che in questi anni hanno riempito le pagine dei giornali. 

Se non si può condividere il proposito di tornare alla meritocrazia dei tempi andati – magari scandita da liste di scuole buone e da liste di istituti da evitare – neppure si può restare indifferenti verso la sottostima del valore del titolo di studio. Che razza di messaggio diamo ai ragazzi che vanno a scuola? Quello che alla fine in qualche modo ci si arrangia sempre?  

La contraddittorietà del messaggio tocca non solo gli studenti, ma anche i docenti e il sistema nel suo insieme (un milione di persone pagate dallo Stato, 750mila docenti e il resto personale tecnico amministrativo). Come dire: fate bene il vostro lavoro, noi lo valuteremo scrupolosamente attraverso l’Invalsi, ma pazienza se non riuscite a raggiungere gli obiettivi, troveremo il modo di accomodare le cose, tanto il titolo acquisito non è più qualificante. 

Già ci sono le università con i test di ingresso a diffidare degli esiti finali. Il sistema scolastico – già sotto pressione per molte ragioni – subisce in tal modo una ulteriore vera e propria delegittimazione. 

Siamo infine in presenza – ad un altro livello – di una scelta politica in controtendenza con tutte le dichiarazioni e le decisioni fin qui assunte che, almeno a livello ufficiale (compresa l’Unione Europea e naturalmente il nostro Paese), accompagnano le strategie per uscire dalla crisi. 

Da almeno vent’anni la prospettiva verso cui andare – nel 2000 a Lisbona vennero a tal fine assunti dai Governi europei impegni precisi, finora largamente disattesi, per la verità non solo in Italia – è quella della “società della piena conoscenza” e cioè una società che pone alla base del suo sviluppo un’alta qualificazione culturale e professionale. Esattamente il contrario del messaggio veicolato dal decreto del Governo.

Il presidente Letta ha ripetutamente assicurato che la scuola è tra le preoccupazioni principali dell’azione di governo. Sarà, ma il messaggio inviato con il decreto dei giorni scorsi non sembra in sintonia con queste dichiarazioni. 

Non dispongo degli strumenti tecnici per suggerire come salvare la comprensibile preoccupazione “assistenziale” ed evitare che si trasmetta il messaggio della inutilità dei titoli di studio. Ma avverto urgente l’esigenza che in fase di conversione qualcuno non sottovaluti i cattivi segnali che giungono dall’attuale testo del decreto.