Mi permetto di condividere qualche riflessione generata dalla lettura del recente contributo di Giorgio Chiosso.

Lo spunto per la riflessione del professore è viziato dalla mancata lettura dell’articolo definitivo oggetto del commento, che già il giorno prima della ufficializzazione in Gazzetta Ufficiale del cosiddetto Pacchetto Lavoro l’ufficio stampa di Palazzo Chigi si era affrettato a spiegare smentendo le ricostruzioni parziali dell’incentivo giovani (di questo si tratta) fatte circolare con volontà di confusione da uno dei partiti di opposizione. L’articolo 1 del decreto legge 28 giugno 2013 n. 76 istituisce un incentivo per chi assume a tempo indeterminato (anche tramite trasformazione di precedente contratto) lavoratori rientranti, alternativamente (non complessivamente!), in una di queste categorie: 1) persone prive di impiego retribuito da almeno sei mesi; 2) persone prive di diploma di scuola media superiore o professionale; 3) persone che vivono sole con una o più persone a carico.



Si tratta di requisiti rigidi e restrittivi? Certamente. Era però difficile immaginare una soluzione alternativa considerate le regole comunitarie, l’esiguità delle risorse che obbliga una severa selezione dei beneficiari, la compresenza di diverse altre forme di incentivo, primo fra tutte il trattamento contributivo del contratto di apprendistato.



La critica più diffusa e severa all’articolo 1 del Pacchetto Lavoro è quella avanzata anche dal prof. Chiosso: «la sottostima del valore del titolo di studio» contenuta nel decreto. Indipendentemente dalla fraintesa alternatività dei requisiti, è stato da molti sottolineato che il decreto è «l’esatto contrario dei propositi meritocratici» che sono stati senza sosta predicati negli ultimi anni da politici, tecnici e media.

Tale levata di scudi contro questa normetta del pacchetto lavoro (la si può analizzare tecnicamente nel recentissimo instant ebook pubblicato dal gruppo di ricercatori Adapt su www.bollettinoadapt.it) è piuttosto significativa. Ma non si preoccupino i tifosi del merito scolastico: il decreto, che ha come cifra distintiva la confusione sulla direzione da intraprendere per contrastare la disoccupazione giovanile, al suo interno contiene alcune norme ben attente a non contraddire la filosofia della sovrastima del valore del titolo di studio. In questo senso è particolarmente significativa la disciplina contenuta all’articolo 2, commi 10-13 sull’inedita «alternanza studio lavoro». Il Miur si è impegnato a destinare 10,6 milioni di euro in tre anni al rimborso spese dei tirocini curriculari «sulla base di graduatorie formate secondo i seguenti criteri di premialità: 1) regolarità del percorso di studi; 2) votazione media degli esami; 3) condizioni economiche dello studente (…)».



I quattro commi citati, in poco più di mezza pagina fanno molto più danni del vituperato incentivo previsto nell’articolo 1, che, pur essendo confusionario e vagamente assistenzialista, prova a distribuire le pochissime risorse stanziate rivolgendosi ai soggetti particolarmente svantaggiati sul mercato del lavoro. 

Altro che i contenuti della lettera fasulla che ha ingannato molti quotidiani nazionali: si tranquillizzino i fan del merito scolastico, l’incentivo economico non è un “premio” a chi non ha studiato, ma una soluzione disperata per contrastare una condizione drammatica, tanto più in un Paese con un tasso di disoccupazione giovanile del 38,5%, oltre la metà del quale da composto da disoccupati “di lunga durata” (in cerca di lavoro da oltre 12 mesi), con tutti gli effetti che questo comporta (“cicatrici”) sulle possibilità di ottenimento di un lavoro dignitoso. 

I commi 10-13 dell’articolo 2 preoccupano soprattutto per quattro segnali tecnico/culturali che lanciano ai giovani. 

1. L’espressione “alternanza scuola-lavoro” è vivacemente discussa tra gli operatori e gli studiosi della formazione primaria e secondaria per l’inevitabile significato divisorio che il termine “alternanza” esprime (alternativamente prima la scuola, poi il lavoro…). Per evitare questo equivoco va affermandosi, sempre in quell’ambito disciplinare, la più riuscita definizione di “integrazione scuola lavoro”, che bene comunica il necessario e inscindibile legame che devono avere teoria e pratica, pensiero ed azione. Le espressioni “scuola” e “lavoro” identificano due luoghi e due metodi fisici che in Italia sono effettivamente separati. Ben diversa è l’affermazione di principio di una alternatività (quindi non coincidenza) tra “studio” e “lavoro”: se si studia, quindi, non si lavora e non si può studiare praticando attività lavorative. Lo studio, di conseguenza, è quello che si svolge nel protetto ambiente formativo, mentre il lavoro è ciò che si alterna fuori da esso. Può apparire un vezzo linguistico, ma nasconde una concezione pedagogica che ha segnato non poco (in negativo) l’evoluzione del nostro sistema scolastico. L’espressione utilizzata più o meno consciamente nel comma 10 comunica inoltre una preoccupante improvvisazione terminologica dei tecnici che l’hanno scritta: mai si era associata la “alternanza” al mondo universitario.

2. Lo Stato ha deciso di pagare (o meglio rimborsare, trattandosi di esperienze di tirocinio) gli stage curriculari. Se il tirocinio è un momento di lavoro, non c’è da stupirsi che debba essere pagato, in forza del più ovvio dei presupposti giuslavoristici: lavoro in cambio di salario. Si stanno però regolando dei tirocini «curriculari», ovvero ricompresi nel piano formativo dello studente universitario e a questo disciplinarmente connessi. Ebbene, ma se lo studente, al pari degli esami e con lo stesso peso di crediti formativi, deve svolgere questo “compito” per potersi laureare, perché deve essere pagato dallo Stato? Delle due l’una: o l’esperienza di tirocinio curriculare è formativa tanto quanto lo studio di una disciplina tradizionale (che certamente non viene pagato) o è un’esperienza di lavoro anticipata, finalizzata a sottoporre gli studenti all’attenzione delle aziende in vista di una futura selezione. Solo allora è ragionevole il pagamento, seppure ridotto. L’articolo 2 sceglie la seconda opzione, separando nettamente lo “studio”, gli esami universitari, dal “lavoro”, i tirocini aziendali. Un ulteriore passo indietro rispetto alla definizione di tirocinio formativo e di orientamento che ha accompagnato il diritto del lavoro a partire dal “pacchetto Treu” del 1997, nella quale si reputava essere la stessa formazione e lo stesso orientamento il corrispettivo riconosciuto al giovane per la propria attività collaborativa nel contesto aziendale.

3. Il lavoro viene usato come premio per i migliori. La caramellosa retorica del merito scolastico, uscita dalla finestra all’articolo 1, rientra dalla porta con l’articolo 2. Potranno usufruire dei 400 euro mensili (la metà obbligatoriamente a carico dell’impresa) gli studenti in corso coi voti più alti. Questo il messaggio trasmesso: se sei iscritto all’università (attenzione: solo quella statale) e sei tra migliori lo Stato ti facilita nella ricerca del lavoro pagandoti lo stage obbligatorio presso le imprese. Un premio che nulla c’entra con la motivazione dello studente, la coerenza tra i suoi studi e il piano formativo del tirocinio, la decisione dell’impresa. Si fatica a comprendere la funzione di contrasto alla disoccupazione giovanile contenuta, a parole, nella norma: chiaramente così si facilita chi è più occupabile e quindi con maggiori possibilità di reddito nel futuro. 

4. È certamente necessario incoraggiare nel nostro Paese, durante ogni grado della formazione e maggiormente in quello terziario, il rapporto tra impresa, scuole, centri di formazione professionale e università. Perché questa alchimia si crei non basta organizzare frequenti, ma episodici, career day. Occorre, da una parte, ristrutturare l’offerta formativa, anche coinvolgendo responsabilmente le imprese, perché sia coerente con il fabbisogno formativo del territorio; dall’altra convincere le aziende stesse che l’investimento in formazione dei giovani è conveniente per la qualità dell’attività oltre che socialmente responsabile. L’articolo 2 sceglie però di intervenire solo sull’aspetto motivazionale e reddituale del giovane, senza intervenire sull’ordinamento universitario né sulla motivazione dell’imprenditore (anzi, l’obbligo di pagamento può avere, in questo senso, un effetto contrario). Conseguentemente viene da chiedersi: ma in Italia vengono attivati pochi tirocini universitari a causa del disinteresse degli studenti o per colpa di un’offerta numerica sensibilmente inferiore alla domanda e incapace di costruire percorsi coerenti con il piano di studi del richiedente? La risposta a questa domanda indica il grado di efficacia che avrà la norma nella promozione «dell’alternanza tra studio e lavoro» universitaria. Norma che, calcolatrice alla mano, incoraggia l’attivazione di soli 53mila tirocini curriculari, a fronte di 1.751.192 iscritti totali (secondo le statistiche del Miur). L’effetto “goccia nel mare” è evidente ed è difficile non chiedersi se quei 10,6 milioni non potessero essere sfruttati davvero per ristrutturare l’offerta formativa (o quantomeno i sonnecchianti uffici placement) degli atenei, vero ostacolo alla maggiore integrazione tra università e lavoro.

Comprensibile, quindi, lo scetticismo verso i rigidi criteri di selezione utilizzati per individuare i beneficiari dell’incentivo per l’assunzione di cui si è tanto scritto. 

I segnali più preoccupanti del pacchetto lavoro, culturalmente e tecnicamente, sono da ricercarsi, però, nell’articolo 2. Un pericoloso rigurgito di “statalismo illuminato” che sarebbe bene correggere durante la conversione in legge del decreto.

@EMassagli