Caro direttore,
sono una ragazza che ha appena terminato gli Esami di Stato al liceo classico. Mi ha indotto a scrivere un recente articolo di Giovanni Fighera in cui si parla del “mestiere di vivere” al quale gli esami e più in generale il sistema scolastico dovrebbero dare voce.
Da parte mia quest’anno è stato permeato da un liberante Estote parati, che mai nei precedenti anni di scuola avevo avvertito, l’esigenza di essere pronta, prima di tutto davanti a me stessa come giovane donna, a quella Maturità che oggi è appena cominciata.
Ricordo che all’inizio degli studi liceali la paura più prepotente era stata quella di obbedire, per l’angoscia di uscirne come snaturata. Voler crescere e scoprire la mia indole, ma non in maniera istanteanea, dettando io tempi e modi della metamorfosi, quasi nel timore di essere esaudita troppo in fretta. Ma con quale presunzione potevo comprendere di che materia fossi fatta, se selezionavo quanto ricevevo? Questa incapacità a leggersi tipica degli adolescenti ricadeva inevitabilmente anche nel rapporto colle cose: non sapere quali proporzioni dare agli eventi, ai dialoghi, che peso specifico assegnare al singolo sapere ricevuto. Come per qualsiasi bambino la prima tendenza è stata quella di afferrare tutto con voracità spietata nel disperato tentativo di tenerlo solo per sé. Penso alla quantità di materia che mi capitò addosso solo al primo anno, all’ansia di inseguirla, col rischio evidente di arrivare alla fine non matura, ma con una serie di farfalle intatte (saperi tanto appariscenti), morte dietro una teca di vetro. E quell’assurda volontà di assorbire nozioni per non perderne l’essenza, non capendo che in una conoscenza meramente collezionistica di essenza rimane ben poco. Anche l’attaccamento disperato alle cose era stato un risvolto di una prospettiva che andava educata fino alla presa di coscienza che nessuno sa amare la terra più del marinaio che di continuo la perde.
L’unica maniera per far vivere le cose che ho imparato in questo percorso è stata lasciarle esprimersi nel loro ambiente, libere di tessere i legami di ragnatela tra una parete e l’altra, e solo allora, a debita distanza, decifrare i segni dell’intero. Se privato di una prospettiva più ampia non è detto che l’amore per le cose svanisca, ma ai miei occhi era stato come se la loro capacità di attrazione non reggesse più. Solo da una visione più estesa è derivata anche la passione per il particolare.
Arrivare ad apprezzare le asperità della lingua, il pericolo sempre presente della traduzione, provare affetto addirittura verso quel sommo sacrificio della sintesi, quanto mai irritante nell’orale di maturità in un’occasione dove si vorrebbe esprimere a pieno la propria iniziativa. Mirare anche e soprattutto al limite, quale presupposto necessario al lavoro.
Esiste una dichiarazione di amore più forte alla realtà? Darsi senza riserva è stato il modo di togliere il velo al cuore delle origini e degli uomini che hanno reso memorabile la storia, per gustare un fondo di giudizio che fosse mio, mai slegato dai maestri che l’hanno aiutato a nascere. Vir bonus dicendi peritus, era il tipo di uomo che Cicerone, pur nella sua vanità, voleva educare: un uomo istruito non per diletto ma per il bene comune, in una concezione del sapere unitario e utile alla societas.
Societas amata perché non risparmiava nulla della fatica presente. E sono grata che nulla mi sia stato risparmiato in questi anni e che assieme alla consapevolezza, specialmente in quest’ultimo periodo di studi, sia emersa anche la tristezza. Quella eterna santa tristezza che Dostoevskij dice “una volta assaporata e conosciuta, non si scambierà mai più con una soddisfazione a buon mercato”. A che pro inseguire la verità se questa si ottiene unicamente col sacrificio della propria felicità? Cosa garantisce esser valenti sempre? Salir a che vale? Qualcuno disse io sono la Via, la Verità, la Vita. Anche senza bisogno di credere si avverte che il senso tattile delle cose non può che esprimersi attraverso la verità di queste. Perché l’essere umano è naturalmente portato alla conoscenza e solo se posto in relazione scopre la verità di se stesso.
Certo bisogna essere davvero innamorati delle cose, per amarle sapendo che queste tradiranno. Amarle nella loro alterità, non per una specie di perbenismo, ma perché pure nella solitudine del deserto nei banchi certi giorni, o nell’ostilità dei propri compagni, può emergere in maniera più chiara la voce limpida della realtà. Quasi rispecchiando quella dinamica per cui un pittore come Cezanne riteneva che la luce più adatta alla creazione fosse proprio l’assenza totale di luce, presupposto per ritrarre nella loro verità oggetti e persone, che già nell’atto della creazione si separavano dalla misura che l’autore aveva saputo imporgli.
“Ora mi rendo conto di quante cose tu mi / abbia dato da portare, mio Dio. Tante cose belle e tante cose difficili. E quelle difficili si sono / trasformate in belle ogni volta che ero disposta a sopportarle. E certe volte è stato più difficile / sopportare le cose belle e grandi che quelle dolorose, perché ne ero come sopraffatta. Pensare che un /piccolo cuore umano possa provare così tanto, possa soffrire e amare a tal punto” (Etty Hillesum)
Ed è stato duro uscir a riveder le stelle, dopo un percorso tanto irto e pieno di ostacoli. Così riempiti di sapientia, ma per nulla sazi. Niente aborrendo più della mera erudizione, del dare voce a un sapere sterile che non prepari alla vita. Tante sono state le strade scartate, molti gli strappi consumati, tante maschere indossate, consapevoli che chi avevamo di fronte sapeva leggerci meglio di quanto noi stessi non fossimo capaci.
Sono stati necessari estenuanti pomeriggi di esercizio per notare la grazia del movimento di una statua ellenistica, tutta la nostra sensibilità per avvertire la nostalgia dei versi di Menandro. Per scoprire all’ultima lezione di latino che al fianco della famosissima “conosci te stesso” incisa sul tempio di Delfi c’è un “ei”, tu sei. Forse solo attraverso quest’ultimo è stato sostenibile accettare la conoscenza di sé e dei propri limiti e arrivare al sugo di questa strada.
Così è stato possibile uscire dall’orale non desiderando di dimenticare – prendi l’arte e mettila da parte − ma di metterla a parte della vita, coll’ambizione di conservare sempre una tale intima corrispondenza di amorosi sensi con le cose.
Ancora in formazione, talvolta ingenua, ma retta sana libera è la capacità di giudizio che questi Esami di Maturità mi hanno chiesto in prima persona, pur con tutti i limiti delle singole prove. So che ridarei tutto per quei quindici minuti di tesina, dallo studio primitivo degli accenti greci alle curve di rotazione di fisica, tutto per quindici minuti di vocazione.
Prendi lo tuo piacer per duce, diceva Virgilio prima di lasciare Dante a Beatrice. Con questa prospettiva chi non desiderebbe cominciare subito l’università? Ma anche il tempo deve lavorare pazientemente per la partenza verso qualcosa di già impiantato, che per dire un “io” coraggioso andava riconquistato.
E accanto al giudizio dentro di me, trovo questi boccioli di mandorlo in fiore fuori dalla finestra. Perché l’iniziativa, l’adesione totale è necessaria, ma mai sufficiente. Non è certo esauriente il desiderio di conoscenza umano, ci vuole una sorta di grazia per attraversare la tristezza.
Volli, fortissimamente volli, ma non bastò.
Ricordo Jacopone da Todi che di quella Esmesuranza di amore che ferisce chi vi si abbandona aveva scritto: “Amore, Amore grida tutto ‘l mondo, ‘Amore, Amore’ onne cosa clama. Amore, Amore, tanto si prefondo, chi plu t’abraccia, sempre plu t’abrama”, così simile al travaglio dello studium spietato della realtà. Tanto più si è disposti a metterci l’anima, tanto più l’apertura della ferita si approfondisce, ridando alle cose le loro reali proporzioni. E non posso che ringraziare quanti maestri e dolcissimi padri mi sono stati accanto per avermi insegnato quel “mestiere di vivere”, nel tempo che ora chiede di rischiare la strada, di maturare lasciando la casa dei padri per divenire padri noi stessi. In un amoroso uso di sapientia che nulla trascuri, che affronti i mille volti di crisi senza esserne sopraffatto, che appartenga a tal punto al mondo da non esserne ultimamente definito.
Sara Caspani, Liceo classico Don Gnocchi – Carate Brianza