Che invidia, i ragazzi descritti nell’articolo di Paolo Di Stefano sul Corriere “I primi della classe dinamici e “social”! Bravi, simpatici, pratici del mondo. Probabilmente bellissimi… Un bel progresso rispetto alla generazione dei loro padri (cioè a me…) che alla loro età giravamo, low cost, sulla corriera o sul motorino, coi risvoltoni in fondo ai jeans, i brufoli e la capigliatura alla MacGyver (un crimine contro l’umanità degli anni 80).



Ma l’invidia, come l’ira sua sorella, oltre ad essere uno dei sette peccati capitali, è una pessima consigliera, e dunque non partirò da lei (e nemmeno, spero, ci arriverò) nello scrivere queste righe. Nessuna nostalgia per il tempo meraviglioso della mia giovinezza (d’altra parte io, nell’estate del ’69, non ero “on the road”; al massimo gattonavo…); nessuna rivendicazione orgogliosa da figlio del popolo contro gli odierni virgulti chattering e social (anche perché il massimo di working class a cui posso arrivare è il video di “Girls just wanna have fun”, oltretutto un vero catalogo di orrori tricologici).



Meglio per loro. In definitiva meglio il jazz di Giulia, la migliore diplomata del suo liceo classico citata nell’articolo, che Cyndi Lauper.

C’è però un aspetto che non mi è chiaro, nell’articolo di Di Stefano, un aspetto che sembra strillato nel titolo ma che alla fine è evanescente, fino all’inconsistenza. Il ruolo, la funzione, il merito che ha la scuola, nella riuscita umana di questi ragazzi.

Sì, d’accordo, se vuoi passare la maturità classica devi studiare come in nessuna altra scuola al mondo (è proprio vero, come dice un mio amico diplomato al Manzoni, che “il bello di aver fatto il classico è che puoi tirartela per tutta la vita”…)  ok, va bene, devi amare la storia, il greco e il latino. Ma l’impressione che rimane leggendo l’articolo è che la scuola, al di la dell’essere un banco di prova e un ambiente di socializzazione (e neppure quello essenziale), non aggiunga nulla a ciò che questi ragazzi già hanno.



E questo è precisamente il dramma della scuola italiana, al classico come al professionale: chi ha stimoli, rapporti e contesti esterni adatti alla scuola se li vede certificati, didatticamente e socialmente come patrimonio culturale; con chi non ha queste condizioni di partenza la scuola è strutturalmente incapace di collaborare per incrementare il bagaglio di conoscenze e competenze, né per aggiunta ( ti insegno cose che non avresti imparato da nessuna altra parte) né per trasformazione (prendo quello che sei e che sai e lo faccio diventare cultura).

Su questo punto, origine e sintomo di una più profonda e drammatica crisi dei sistemi scolastici contemporanei, una utile lettura è senz’altro Requiem per la scuola? di Norberto Bottani. È probabilmente vero che i nostri figli più svegli siano per certi aspetti incomparabilmente più “smart” di noi; non sono altrettanto certo che in questi ultimi decenni sia aumentata la fascia di ragazzi che, pur non eccellendo, si trovano a vivere condizioni culturali extra scolastiche tali da essere compatibili con quanto richiesto dalla scuola in quanto banco di prova. Temo anzi che i numeri su Neet, disaffezione e abbandoni scolastici dicano il contrario.

Il problema, però, è della scuola che non è riuscita, nei suoi millanta conati di riforma, ad adeguarsi lei a condizioni sociali in costante e in larga parte drammatico mutamento.

Se così fosse, e paradossalmente il ritratto di costume che Di Stefano fa lo conferma “a contrario”, mostrando come solo chi ha un “curriculum vitae” in larga misura eccedente il “cursus honorum” riesce bene a scuola, la scuola stessa, istituzione pubblica (sia dal punto di vista della funzione sia dal punto di vista del drenaggio di punti percentuali di Pil dal bilancio) e “formazione sociale in cui si svolge la personalità del singolo”, deve ritrovare gli elementi fondanti ed essenziali del suo essere.

La scuola ha smesso di essere un ascensore sociale, perdendo con questo una delle principali legittimazioni alla sua trasformazione in istituzione di massa. Di fronte a sé ha un bivio: o torna ad essere modellata su una scuola d’élite (e non è un caso che nell’articolo del Corriere si parli solo ed esclusivamente del classico, e si faccia riferimento, per la comparazione, alla scuola deamicisiana della fine dell’Ottocento) o ritrova la strada per interloquire con tutti i suoi studenti a partire da quello che sono, da quello che vogliono/ possono diventare ed è opportuno che diventino.

Per far questo ci sono probabilmente alcune prospettive da esplorare, in qualche misura accennate, in positivo o in negativo, dal pezzo da cui siamo partiti.

Fare di necessità virtù (l’utilità sociale…) non è un di meno per la scuola, e meno che mai in una situazione di crisi profonda come l’attuale. Una scuola alleata con il mondo del lavoro, per quello che esso può dare e con i limiti e i compromessi che ogni alleanza porta con sé, può significare recuperare la funzione di ascensore/ mobilitatore (non di ammortizzatore) sociale, premessa necessaria per un reale interesse di famiglie e studenti.

Dare la prevalenza al “curriculum vitae” per tutti (e non solo per chi già di suo è in grado di svilupparne uno) significa ripensare profondamente la struttura dei saperi e delle competenze (la “ratio studiorum”) oggetto di tutta la trasmissione e la rielaborazione culturale della scuola per dare spazio e casa all’esperienza di vita che ogni studente ha; contemporaneamente significa immaginare pezzi rilevanti e valutati del percorso di istruzione in realtà esterni alla scuola stessa: in questo senso le occasioni di lavoro (stage, alternanza, apprendistato, anche rielaborando esperienze rilevanti come quella tedesca) sembrano essere tra le più serie ed arricchenti.

D’altra parte occorre considerare che è solo negli ultimi venti-trent’anni che la scuola ha assunto pretese “egemoniche” sulla vita degli studenti, una sorta di ambiente omnicomprensivo, di mega contenitore che riproduce al suo interno ogni aspetto della vita. Accanto alle relazioni scolastiche esistevano importanti contesti in cui si viveva: la famiglia allargata, le comunità come la parrocchia, per i maschi il gruppo dei pari (la leva) ecc. Tutti fonte, ambiti di apprendimento.

Ciò che viene rilevato come caratteristica della società liquida è invece molto probabilmente il tentativo di uscire (dopo che la ribellione sessantottina è stata stravolta dall’ideologia) da una condizione sociale “bloccata” tentando di creare altri punti aggregativi: questo può essere un valore, se compreso e valorizzato, per tutti gli studenti, non solo per quelli che ce la fanno “etsi schola non daretur”.

L’ultima dimensione, affermata dalle norme e negletta nella pratica e nella governance, necessaria perché le precedenti abbiano qualche chances di realizzarsi è l’affermarsi di una reale autonomia/responsabilità sociale di ogni singolo istituto (statale, paritario, di formazione professionale) che contribuisce a costituire il sistema educativo nazionale: non è la scuola come moloch ministeriale, ma la singola scuola che si prende la responsabilità di costituire una reale opportunità di miglioramento e di creazione di valore aggiunto per i singoli studenti; su questo deve poter essere monitorata, valutata, corretta e sostenuta.

Su quest’ultimo punto, mi sembra che sulle pagine dello stesso quotidiano milanese siano emerse, nei mesi scorsi, riflessioni molto interessanti, riprese dagli stessi autori (Andrea Ichino e Guido Tabellini) in un e-book della collana “i corsivi del Corriere della Sera”. Il tema, e questa potrebbe davvero essere una novità, comincia ad essere sentito non solo a livello di costume.

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