La massa di dati contenuti nel recente Rapporto Ocse Education at a glance (“Uno sguardo sull’educazione”), uscito nel 2013 con qualche mese di anticipo rispetto al solito, consente molte chiavi di lettura. La prima è quella di definire i livelli assoluti di istruzione raggiunti da un paese, che consentono di contestualizzare la posizione dell’Italia rispetto agli altri paesi, ma è almeno altrettanto importante un’analisi delle trasformazioni, per capire se il sistema è statico o sta migliorando. Possiamo definirla un’analisi di efficacia.
La seconda riguarda invece la capacità di produrre questi risultati in modo efficiente: e sono tutti i dati sui costi dell’istruzione. La terza, su cui però il Rapporto non apporta contributi, né se lo propone, è la qualità della formazione erogata: per l’Ocse, un titolo di primo livello in fisica o in storia è equivalente in ogni paese, mentre risulta evidente come non sia così, nemmeno all’interno di uno stesso paese. E a ben vedere, il vero confronto si giocherebbe a questo livello: che senso ha dire che il paese A ha il doppio di laureati del paese B, se questi laureati hanno un titolo, ma non una qualificazione? Ma poiché questo confronto non è possibile, in questa mia analisi vorrei per il momento limitarmi al primo punto, i livelli di istruzione raggiunti.
Considerando i livelli nel loro insieme, vediamo che l’Italia ha accelerato il passo: tra il 2000 e il 2011 la popolazione compresa fra 25 e 64 anni che non ha un titolo di istruzione secondaria è scesa dal 55 al 44% (con un calo annuo di 2 punti), i diplomati e qualificati sono saliti da 36 a 41% (+1,3 annuo) e infine i laureati sono saliti dal 10 al 15% (+4,1 annuo). Se prendiamo in esame solo la fascia di età più giovane, compresa fra 25 e 34 anni, troviamo valori assai più elevati: i laureati sono saliti da 11 a 21% (+6,5 annuo), i diplomati sono rimasti stabili, passando da 49 a 50, e infine le persone non in possesso di un diploma sono scese da 41 a 29% (-3,2 annuo).
Nonostante questa accelerazione, il livello medio di qualificazione degli italiani è inferiore a quello dell’Europa a 21 paesi (che utilizzerò come riferimento), perché deve scontare i bassi livelli di partenza: In Italia la differenza fra le quote di popolazione in possesso almeno di un diploma è di 31 punti tra i più giovani e i più vecchi, compresi fra 55 e 64 anni di età, contro i 19 di Ue21, e nel 2011 la differenza fra Italia e Europa era di 13 punti per i più giovani (71 e 84), e di 25 (da 40 a 65) per i più vecchi.
Che significato attribuire a queste cifre? In estrema sintesi, esse ci dicono che l’Italia è partita da una situazione di “sottocapitalizzazione” delle proprie risorse umane, ma ha fatto negli ultimi dieci anni un consistente sforzo per ridurre il distacco, che nelle fasce più giovani è di fatto ridotto di un terzo. Paradossalmente, però, queste stesse fasce più giovani sono quelle su cui più incide la disoccupazione, e quindi l’investimento in capitale umano è almeno parzialmente sprecato. L’Italia, oltre ad avere uno svantaggio residuo da recuperare, non riesce a creare posti di lavoro per i giovani qualificati.
Nei confronti con l’Europa, la fascia dei meno qualificati dovrebbe scendere ancora, e quella dei laureati crescere ancora: ridurre la sottoqualificazione è anche, forse soprattutto, un problema di equità sociale, mentre il potenziamento delle persone ad elevata qualificazione coinvolge più da vicino il tema della competitività economica (e richiederebbe ulteriori specificazioni non tanto sul livello quanto sul tipo di qualificazione ottenuta). Nel rapporto fra i generi, le donne hanno migliorato la loro posizione più degli uomini (fra il 2000 e il 2011 gli uomini in possesso di diploma o laurea della fascia giovane sono passati da 42 a 70, le donne da 40 a 75) ma siamo ancora staccati di circa dieci punti dai valori medi dell’Ue21.
Le conseguenze sull’impiegabilità della riuscita scolastica sono note e in un certo senso scontate: da almeno quindici anni, i tassi di occupazione dei laureati sono sempre stati superiori (talvolta molto superiori) a quelli dei non laureati. La crisi può avere modificato gli equilibri, ma per il 2011 l’Ocse nota che le probabilità di trovare lavoro crescono con il livello di educazione (lavora a tempo pieno il 75% dei laureati, contro il 64% di chi non ha alcun titolo di studio); le donne hanno meno probabilità degli uomini di lavorare a tempo pieno, ma per le laureate la differenze sono minori; e infine le persone con una formazione tecnica e professionale trovano lavoro più facilmente di chi ha un titolo (diploma o laurea) di tipo generalista.
La seconda informazione che l’Ocse ci fornisce riguarda, oltre al livello, il tipo di qualificazione posseduto, e qui salta immediatamente all’occhio la pesante anomalia del sistema italiano: praticamente tutti i laureati sono di tipo A, cioè hanno conseguito una tradizionale laurea accademica, di tre o cinque anni, mentre l’istruzione superiore non universitaria, che nei paesi di Ue21 è pari al 9% della popolazione, è praticamente assente. Se infatti consideriamo solo la laurea accademica, le differenze diminuiscono nettamente: 15 laureati in Italia contro 21 nella media dei paesi Ue21. Se si va a guardare nel dettaglio l’insieme dei paesi, risulta evidente che i paesi con le quote maggiori di laureati devono la loro posizione all’istruzione superiore non universitaria: ad esempio, dei 51 laureati del Canada 25 sono non universitari, e 20 su 46 del Giappone.
È quasi inspiegabile, se non forse in termini di pregiudizio culturale, la ragione per cui in Italia il “terziario di tipo B”, cioè quello non accademico, non sia mai riuscito ad impiantarsi: l’esperienza del diploma universitario, che dopo un difficile avvio stava consolidandosi su di un buon successo, con un gradimento diffuso sul mercato del lavoro, almeno per gli indirizzi tecnici, è stata prontamente abbandonata senza essere mai valutata in modo approfondito, e certamente non sostituita dalla laurea triennale, che ha caratteri ben diversi (e infatti si chiama “terziario di tipo A di primo livello”).
Le conseguenze di questa situazione non sono gravi solo in termini di abbattimento dei livelli di qualificazione della popolazione, ma in termini di possibilità di successo. Se nell’Ue21 circa un terzo degli iscritti a un ciclo di istruzione terziaria non accademico non consegue il titolo, in Italia i valori si stanno rapidamente riportando ai livelli pre riforma, in cui circa un terzo consegue il titolo, e i due terzi abbandonano. Scrive il rapporto Ocse: “Cominciare un programma accademico senza finirlo, non è necessariamente un fallimento, se gli studenti possono essere riorientati con successo verso un programma di tipo B (corsivo mio). In Francia, il 14% di studenti che non completano il percorso accademico conseguono un titolo di tipo B. In altre parole, Su cento matricole, 68 conseguono almeno la laurea di primo livello, 14 conseguono una laurea di tipo B, 4 continuano a studiare e solo 14 escono dal sistema terziario privi di titolo”. L’esistenza di un sistema monolitico di tipo accademico non solo produce un maggior numero di drop out, ma non fornisce alternative per il loro recupero. E nonostante ciò, sembra che l’unico obiettivo di ogni istituzione di formazione superiore sia quello di assomigliare il più possibile all’università.
La mancanza di alternative genera non solo una buona parte degli abbandoni, ma l’eccesso dei fuori corso. Il rapporto Ocse, in realtà, non contiene dati sugli abbandoni in Italia, come del resto per molti altri paesi: l’unico dato disponibile è il valore medio già citato, di 31 iscritti nel 2000 che non hanno conseguito nessun titolo, valore che è nettamente più basso di quello italiano. Possiamo indurre il peso degli abbandoni dal fatto che i tassi di passaggio dalla secondaria sono fra i più alti (settimo paese su 23 di cui sono disponibili i dati), mentre per numero di laureati della fascia più giovane ci seguono solo tre paesi (Austria, Turchia e Brasile).
Dal punto di vista delle politiche educative, questi dati forniscono indicazioni molto chiare: bisogna insistere nel recuperare lo svantaggio iniziale, investendo soprattutto nelle filiere tecniche e professionali, sia diversificando l’offerta di istruzione superiore sia, all’interno dell’università, potenziando gli indirizzi tecnico-scientifici anche in sede di orientamento per chi deve scegliere (e del resto questo era uno degli obiettivi di Lisbona).
Dato però che sul mercato del lavoro e nella società in generale è presente una cospicua quota di popolazione che non ha un adeguato titolo di studio, sarebbe necessario accanto alla formazione tradizionale investire nella formazione degli adulti, per la (ri)qualificazione di chi a suo tempo ha interrotto il proprio percorso o non ha avuto la possibilità di proseguirlo, o vuole/ deve fare qualcosa di diverso. Anche in questo caso si tratta di un settore negletto dell’offerta formativa, che resta concentrata sui liceali diciannovenni che ne costituiscono, invece, una quota sempre minore. Fortunatamente qualcosa si sta movendo fra i docenti, ma certamente la percentuale sulla popolazione della medesima età di studenti nelle istituzioni che per la fascia 30-39 in UE21 è di sei su cento, in Italia si assesta ad un misero tre (in Finlandia sono 16, in Svezia 14), e sopra il 40 non è nemmeno rilevata, mentre il valore medio è 1,5 e nei due paesi già citati supera il tre per cento.
Nella definizione − scherzosa fino ad un certo punto − fra paesi in cui la scuola è fatta per lo studente, e paesi in cui lo studente è fatto per la scuola, non è difficile trovare la collocazione dell’Italia.