Per l’importante ruolo che occupa e l’ampia esperienza maturata il prof. Rembado ha certamente molti più titoli di me per entrare nel merito delle intricate vicende che hanno accompagnato ultimamente i concorsi per dirigenti scolastici e, più in generale, le varie prove selettive della scuola (vedi Tfa, concorso per docenti). L’intervista apparsa l’altro giorno è ricca di spunti e osservazioni condivisibili (su alcuni questioni tornerò tuttavia più avanti) anche se mi pare che sfugga la ragione principale delle difficoltà attuali.
La realtà è che, almeno per una parte delle organizzazioni degli insegnanti (forse per ora minoritarie come rilevanza “politica”, ma in grado di interpretare sentimenti assai diffusi), ci troviamo di fronte a una drastica mutazione della cultura sindacale maggioritaria, segnale ancora informe, ma profondo, di un cambiamento di rotta che accompagna l’esaurirsi di una fase storica e il contestuale avvio di un’altra.
Con l’entrata in campo, tra la fine degli anni 60 e l’inizio del decennio seguente, del confederalismo sindacale (Cgil, Cisl e Uil) la strategia che ne ha connotato per oltre un trentennio la militanza è stata quella di dare vita, anche in forme aspre e talora duramente conflittuali, a un progetto preciso di scuola e, conseguentemente, di perseguire l’obiettivo di docente e di organizzazione scolastica coerente con quel progetto.
Si possono o no condividere i travi portanti di questo impegno (scuola non selettiva, livellamento dei docenti su un unico standard, assorbimento degli insegnanti per anzianità e non per merito, sostegno all’autonomia venato da nostalgie centralistiche, lotta alle discriminazioni e diseguaglianze), però va riconosciuto che si trattava di un’idea “alta” di scuola in grado di incidere sulla natura stessa dell’istituzione scolastica e di confinare sulla difensiva il sindacalismo autonomo, erede a sua volta della nobile, se pur datata, tradizione dell’indipendenza della scuola dalla politica.
Alla battaglia in campo aperto si è via via sostituita negli ultimi tempi una sorta di guerriglia e di colpi di mano a base di carte bollate e di ricorsi in sede giudiziaria condotta di volta in volta a protezione di interessi particolaristici, non di rado soltanto artatamente supposti, ma comunque utili a intorbidire le acque e a sfruttare l’opacità delle situazioni, a rallentare i processi decisionali e probabilmente anche ad assicurare buoni proventi agli studi professionali che si sono specializzati nello specifico settore amministrativo dei ricorsi.
Nei fatti – più che nelle dichiarazioni di principio – si intravede un netto cambio della cultura sindacale evidente in specie tra i docenti più giovani: da un impegno volto a orientare la politica scolastica alla concezione di scuola vista soprattutto come opportunità di assicurare dei posti di lavoro.
Si direbbero così poste le premesse perché la provocatoria profezia enunciata da Ivan Illich (Descolarizzare la società, 1971) possa compiersi: la scuola non più concepita al servizio di alunni, famiglie e soggetti sociali in genere, ma a principale (se non esclusivo) beneficio dei docenti.
E se dagli anni 70 in poi la capacità d’incidere del sindacalismo confederale è stata tale da creare una quasi egemonia capace di condizionare molte scelte governative (e purtroppo anche di far fallire qualche ragionevole piano riformatore), sembra che il futuro stia per essere consegnato agli interessi particolaristici.
Mi pare che sia precisamente questo il quadro con cui quanti credono che la scuola non è solo un’occasione di occupazione di laureati senza lavoro si devono ormai confrontare e nel quale sono chiamate ad agire.
Per contrastare il cancro del corporativismo non c’è altro rimedio che il coraggioso rafforzamento dell’autonomia in modo che la scuola non risponda solo a se stessa (o finga di farlo), ma alle famiglie, ai ceti produttivi e alle esigenze della legalità, della trasparenza e – per dirla con un’espressione impegnativa – del “bene comune”. Nella misura in cui la scuola “rende conto” si pongono i presupposti perché sia indebolito il particolarismo individualistico. Se la scuola continua a essere vista come qualcosa non “da servire”, ma “di cui servirsi” la deriva del sindacalismo verso la tutela degli interessi corporativi sarà irreversibile.
Se il problema del reclutamento dei dirigenti è posto entro il quadro che ho tentato sommariamente di descrivere, non vedo perché anche essi – nell’ambito di una riorganizzazione complessiva delle prassi concorsuali – non possano essere scelti in funzione di aspettative e bisogni locali, vincendo la ricorrente tentazione centralistica che fatalmente riporta all’azione del superiore ministero.
Anzi ritengo che il compito principale del dirigente – più che continuare a essere concepito come l’attore terminale dell’apparato ministeriale – sia proprio quello di rappresentare il punto di mediazione/conciliazione tra le attese e le richieste provenienti dall’esterno della scuola (non tutte da soddisfare, ma da selezionare con prudenza e lungimiranza), la professionalità dei docenti e la natura propria della scuola che è, innanzi tutto, luogo di apprendimento, di memoria culturale, di formazione di persone dalla “schiena diritta”. Lascerei da parte perciò psicologi del lavoro e esperti del management (pazienza se vanno per la maggiore) e punterei su esperienza, cultura, capacità organizzativa e di giudizio critico, passione per la scuola.
So bene che quest’ultimo requisito non è facilmente valutabile secondo criteri obiettivi e dunque esposto a molte critiche e inutilmente retorico secondo i parametri del linguaggio buro-sindacalese, ma – lo diciamo tra noi sottovoce – senza passione non si va da nessuna parte.